ASCOLTA IL TUO CUORE CITTÀ. RESTAURI AL CENTRO DI PERUGIA

Architettura, Arte contemporanea, Il Giornale delle Fondazioni, Interviste
Il 31 ottobre 2018 sono stati inaugurati ed aperti al pubblico il Terzo e il Quarto piano di Palazzo Baldeschi al Corso, edificio di proprietà della Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia situato nel centro storico della città, in passato residenza storica ed oggi moderno spazio museale. Un impegno per il recupero della tradizione architettonica ed artistica della città in funzione delle nuove iniziative culturali e di coinvolgimento del pubblico di cui parliamo con Giampiero Bianconi,presidente della Fondazione.
La Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia, operativa ufficialmente sul territorio dal 1992, promuove da più di venticinque anni la cultura della Conservazione e del Restauro delle opere d’arte, acquisendo per la propria collezione opere d’arte profondamente legate alla storia del territorio e, contemporaneamente, lavorando per un recupero mirato del patrimonio architettonico locale, contenitore d’eccellenza per strutture operative di rappresentanza e nuovi spazi espositivo-museali.
E’ il caso di Palazzo Baldeschi al Corso, storico immobile risultato della fusione di vari edifici tra il centralissimo Corso Vannucci, Via Danzetta, Via Baldo, Via dello Struzzo e Via Baglioni, già destinato a sede espositiva al momento dell’acquisizione nel 2002, oggi completato nel suo progetto di restauro con il ripristino del Terzo e Quarto piano del Palazzo.
I due ambienti ed il nuovo allestimento sono stati curati dall’architetto Carlo Salucci e dal professor Francesco Federico Mancini, i quali hanno creato un percorso espositivo permanente che ospita circa duecento pezzi tra dipinti, sculture e disegni della collezione, uniti tra loro dal fil rouge della geolocalizzazione, poiché sono tutte opere di artisti umbri o che hanno lavorato sul territorio tra il 1400 e il 1900. In particolare, parte del Terzo e l’intero Quarto Piano appena inaugurati sono stati destinati all’arte contemporanea, permettendo così al pubblico di ammirare ad esempio il lascito dell’artista umbra Maria Pistone e le opere del pittore perugino Gerardo Dottori, tra i massimi interpreti del Futurismo e maestro dell’aeropittura, acquisite negli anni dalla Fondazione.
La nuova occasione espositiva è dunque un ottimo pretesto per godere del quadro completo degli interventi che nel tempo hanno restituito l’originaria geometria alle varie stanze del Palazzo, considerato un ponte tra passato e futuro, oggi pronto ad assumere il ruolo di polo museale attivo e propositivo, dove il variegato patrimonio artistico della Fondazione ha trovato perfetta collocazione.
Abbiamo parlato con Giampiero Bianconi, presidente della Fondazione del lungo progetto di restauro ed in generale delle iniziative improntate dalla Fondazione alla tutela dei beni culturali, per capire meglio le strategie in termini di investimenti e valorizzazione del patrimonio locale.

La Fondazione CRPG svolge da oltre venticinque anni un importante doppio lavoro di tutela e promozione del patrimonio artistico, in prima persona arricchendo la preziosa collezione di opere d’arte mobili ed investendo nelle grandi realtà storiche di Perugia, Assisi e Gubbio – rilevando dimore storiche come Palazzo Baldeschi e dando loro una nuova vita come contenitori e promotori di iniziative culturali -, in secondo luogo finanziando progetti di restauro ed attività didattiche attraverso bandi e contributi. Può darmi un quadro generale in merito alle strategie e l’impegno, anche economico, della Fondazione in termini di sostegno ed investimento in iniziative culturali? 
Come giustamente ha osservato, uno degli obiettivi della Fondazione è proprio quello di tutelare e promuovere il patrimonio artistico del suo territorio. L’Umbria è una regione estremamente ricca d’arte e di storia e la Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia si è sempre mostrata particolarmente sensibile alla valorizzazione e alla conservazione dei beni artistici che ne testimoniano la considerevole tradizione culturale. Lo dimostra, in modo particolare, il suo impegno teso a creare un’ampia raccolta d’arte, frutto di acquisizioni mirate, il cui scopo è quello di non disperdere l’importante patrimonio artistico di questa regione. Oggi la collezione di opere d’arte della Fondazione, allestita a Perugia presso Palazzo Baldeschi al Corso, è tra le più prestigiose e rilevanti sul territorio. Da non dimenticare poi l’acquisizione di immobili storici di grande pregio a Perugia, Assisi e Gubbio, i quali, dopo accurati restauri, sono di nuovo fruibili dalla collettività, divenendo vitali centri culturali. Questo sforzo teso a favorire la salvaguardia e la promozione del patrimonio artistico-culturale umbro è stato motivato da una duplice ragione: da un lato, il valore simbolico-identitario e di memoria storica che tale patrimonio riveste; e dall’altro la grande capacità attrattiva sul piano del turismo che esso possiede e che merita di essere sostenuta per i benefici economici, diretti e indiretti, che ne possono derivare. La scelta di impegnarsi in modo così continuo sul versante dell’arte e della cultura risponde ad un preciso indirizzo strategico, che caratterizza la Fondazione sin dalla sua nascita nell’ormai lontano 1992. Uno dei settori d’intervento più importanti in questi anni è stato proprio quello dell’arte, delle attività e dei beni culturali. Ogni anno la Fondazione, attraverso lo strumento del bando, infatti, ha potuto erogare importanti somme di denaro per il restauro di opere d’arte e per la realizzazione di eventi culturali. In questi oltre venticinque anni di attività a questo particolare settore abbiamo dedicato risorse per un ammontare pari a 91 milioni di euro: il che corrisponde al 37,9% del complesso delle nostre erogazioni. Tuttavia attualmente, in un periodo di grande difficoltà economica, nel quale si è acuita la vulnerabilità di ampie fasce di popolazione portando all’impoverimento economico e di conseguenza sociale e culturale, la Fondazione ha ritenuto indispensabile concentrarsi sul settore del volontariato dando impulso a forme innovative di welfare.

La Fondazione CRPG ha acquisito l’antico Palazzo Baldeschi – dimora storica dalla forte valenza simbolica per la città ed i suoi abitanti collocata proprio nel cuore storico di Perugia – destinandolo ad una funzione di costante promozione culturale. Perseguire questo fine ha voluto dire programmare negli anni una serie di interventi mirati, finalizzati al ripristino dei vari piani del Palazzo, di cui il terzo e quarto completati ed inaugurati da pochi giorni. Mi può raccontare quante campagne di restauro si sono rese necessarie per il recupero del Palazzo e quanto tempo hanno richiesto? 
I lavori di restauro di Palazzo Baldeschi al Corso sono stati lunghi ed estremamente complessi. L’intento della Fondazione, data la collocazione dell’immobile nel centro storico cittadino, è stato quello di destinare l’edificio a contenitore museale. La storica dimora, già sede del Microcredito Regionale Umbro, è stata acquistata dalla Fondazione nel 2002. A partire dagli anni 2000 sono iniziati i primi interventi di natura conservativa suddivisi in stralci funzionali: nel 2007 è stata allestita la prestigiosa Collezione di Maioliche Rinascimentali; successivamente sono iniziati i lavori per accogliere la consistente Collezione Alessandro Marabottini (circa 700 opere) inaugurata nel 2015 ed infine sono stati recuperati gli spazi al terzo e quarto piano adeguatamente restaurati per ospitare la collezione di opere più importanti della Fondazione unitamente ad alcuni lasciti. Lo scorso 30 ottobre, dopo molti anni di lavoro, è stato possibile aprire nella sua interezza questo meraviglioso complesso, finalmente a disposizione dei visitatori.

Che tipo d’intervento si è reso necessario nelle sale del Palazzo? Il progetto di intervento è da considerarsi oggi completato? 
Nelle sale recentemente inaugurate, così come nel resto del Palazzo, è stato necessario eseguire tutta una serie di lavori relativi alle opere murarie, agli impianti elettrici, idraulici, di climatizzazione e di illuminazione, impianti di videosorveglianza, finiture e lavori per la sicurezza antincendio. Tale impresa ha visto la collaborazione di maestranze locali altamente specializzate in grado, con le loro competenze, di convertire un Palazzo che nel tempo ha subito varie destinazioni d’uso, in un funzionale centro espositivo-museale di grande richiamo per il pubblico locale e nazionale, aumentando così l’offerta culturale del territorio. Il progetto d’intervento può oggi considerarsi concluso, il Palazzo interamente accessibile al pubblico.

La tutela e salvaguardia del territorio sono temi molto sentiti dalla Fondazione, per cui immagino che siano state attivate collaborazioni con diversi professionisti e specialisti del settore. Iniziative analoghe su territorio nazionale hanno coinvolto anche Università, Centri di restauro e giovani restauratori, chiamati ad applicare sul campo le competenze acquisite, grazie a stage mirati e supervisionati. La Fondazione CRPG ha mai promosso attività di questo tipo? Pensa che possa essere un tema di interesse per il futuro? 
Nella gestione del suo patrimonio artistico la Fondazione si trova spesso a collaborare con professionisti e specialisti del settore. Personalmente ritengo che il coinvolgimento di altri Enti in imprese del genere possa essere estremamente proficuo e sia in grado di apportare un valore aggiunto agli obiettivi che ci prefissiamo. Occorrerebbe sempre creare un sistema di rete e di collaborazione tra diverse istituzioni, sia pubbliche che private, ognuno mettendo in campo le proprie competenze, creando delle sinergie che diano opportunità di crescita. Ad esempio dare la possibilità a giovani restauratori di applicare sul campo le proprie competenze è sicuramente un tema di grande interesse e proprio a questo proposito, recentemente, la Consulta delle Fondazioni delle Casse di Risparmio Umbre in collaborazione con la Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio dell’Umbria hanno realizzato un bando per la selezione di una task force di restauratori per svolgere attività di messa in sicurezza e di restauro delle opere provenienti dall’area della Valnerina colpita dal sisma del 2016. La nostra Fondazione ha aderito con entusiasmo a questa iniziativa.

A proposito degli interventi promossi dopo le scosse degli ultimi anni, sono state portate avanti diverse iniziative a sostegno dei territori colpiti dal sisma. Un esempio concreto è dato dal protocollo d’intesa firmato dalle Fondazioni di origine bancaria del territorio, tra cui la Cassa di Risparmio di Perugia, che hanno messo a disposizione in totale 3 milioni di euro, grazie ai quali le piccole e medie imprese che operano nelle regioni colpite dai terremoti dello scorso anno possono disporre di un plafond di finanziamenti fino a 15 milioni di euro. «Crediamo che questa iniziativa sia un importante segnale per le imprese dei territori colpiti dal sisma – ha dichiarato Giampiero Bianconi – che testimonia l’impegno concreto delle Fondazioni a sostegno del tessuto socio-economico in cui operano. Il nostro sistema imprenditoriale è costituito prevalentemente da piccole e medie imprese che esprimono il senso delle tradizioni della cultura dei luoghi in cui sono nate e in cui si radicano. Sono le realtà che hanno subito i maggiori impatti della crisi e pertanto è fondamentale che vengano accompagnate sulla strada della ripresa, a maggior ragione in situazioni così critiche come quelle in cui si trovano ad operare le imprese dei territori colpiti dal terremoto.»

Quali sono gli obiettivi della Fondazione per il prossimo futuro? Vi sono nuove realtà nei confronti delle quali state pianificando interventi di recupero e valorizzazione? 
Come ogni anno, sicuramente anche nel 2019 saranno pubblicati bandi destinati alla conservazione e valorizzazione dei beni culturali. La Fondazione ha sempre creduto nell’importanza di questi interventi proprio perché ritiene i beni culturali umbri patrimonio della comunità. Relativamente alle collezioni della Fondazione invece verranno senz’altro valorizzate attraverso una serie di iniziative che prevedono incontri, attività didattiche e laboratoriali. Inoltre i nostri palazzi ospitano spesso mostre temporanee organizzate dal nostro ente strumentale, la Fondazione CariPerugia Arte, sempre impegnata nella promozione culturale.

http://www.ilgiornaledellefondazioni.com/content/ascolta-il-tuo-cuore-citt%C3%A0-restauri-al-centro-di-perugia
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Labirinti e geometrie umane. François Morellet al MAC VAL di Vitry sur Seine, Parigi

Architettura, Arte moderna, Mostre
L’anno 2016 ha visto il Musée d’Art Contemporain du Val-de-Marne, più noto come MAC VAL, tagliare il traguardo dei dieci anni di attività nel campo della ricerca e della promozione dell’arte contemporanea. Progettato dall’architetto Jacques Ripault, il MAC VAL ha trovato casa – anzi, una reggia – nel sobborgo di Vitry sur Seine, ad una manciata di chilometri da Parigi. Infatti, l’edificio è stato pensato per accogliere le grandi installazioni di artisti contemporanei attivi dalla seconda metà degli anni ’50, per i quali si è voluto mettere a disposizione uno spazio di 13.000 mq, di cui 2600 sono destinati ad esposizioni permanenti e 1350 alle mostre temporanee, mentre i restanti sono stati pensati per collocarvi i magazzini, le officine ed un centro di ricerca. A celebrare degnamente il primo decennale del MAC VAL, è stato invitato François Morellet, maestro dell’astrazione geometrica che alla soglia dei novant’anni ha realizzato per questa occasione l’installazione Seven Corridors, pensando ai visitatori come al centro del progetto e dello spazio.
Considerato il più grande precursore del minimalismo in Europa, il percorso artistico di Morellet (classe 1926) è iniziato grazie a suo padre, tra le altre cose anche scrittore di libri per bambini, la maggior parte illustrati proprio da suo figlio. Quando la famiglia si trasferì a Parigi, François ebbe la possibilità di studiare e di esercitarsi nella tecnica pittorica tradizionale fino ad esporre al Salon della Société Nationale des Beaux-Arts, ed innamorandosi contemporaneamente delle opere di Raoul Dufy, di Modigliani e di Mondrian. Grazie a loro, Morellet scelse a poco a poco un linguaggio semplice e rigoroso, fatto di geometrie e colori lineari, spesso condizionati da architetture antiche e moderne. Attenzione però, perché l’opera di Morellet e l’artista stesso non sono mai stati austeri, anzi, come dice egli stesso “Evito trascendenza e serietà. Mi sembra che l’umorismo, l’ironia, la derisione e leggerezza siano il sale necessario per rendere piazze, sistemi e tutto il resto digeribili.” Nel decennio 1960-70 Morellet iniziò ad introdurre nelle sue opere sistemi di forme sovrapposte e frammentate, creando disposizioni con un ordine ricercato e definito, basato sullo studio della percezione visiva. Il passo successivo fu quello di fare della sua sperimentazione una vera e propria corrente artistica sperimentale, che coinvolse un gruppo di artisti conosciuti come i GRAV (Groupe de recerche d’Art Visuelle) uniti nella determinazione di nuove forme di espressione. Fu proprio in questo contesto creativo che Morellet iniziò ad utilizzare i tubi al neon e ad interagire con lo spazio a sua disposizione, che si trattasse di interni o di spazi aperti, per finire inserendo nelle sue composizioni perfettamente bilanciate un elemento solo parzialmente controllabile, ma che dà senso alle opere stesse: il visitatore.
L’espressione della potenza visiva, dell’acume e dell’ironia di Morellet si gioca in questo caso in uno spazio di oltre 20 metri quadrati, dove i visitatori interagiscono con quello che appare come un grande labirinto di forme geometriche, giocando dunque un ruolo fondamentale per il senso dell’installazione. Non a caso Morellet è famoso per aver detto che“… le arti visive devono consentire agli spettatori di trovare quello che vogliono in esso, vale a dire ciò che essi portano con sé. Le opere sono come aree picnic, in cui si mangia ciò che si è portato con sé”.
http://www.eastonline.eu/it/cultura/arte-e-architettura/labirinti-e-geometrie-umane-francois-morellet-al-mac-val-di-vitry-sur-seine-parigi

I luoghi della cultura e della memoria. Piero Pizzi Cannella alla Fondazione Pastificio Cerere, Roma

Architettura, Arte contemporanea, East magazine, Mostre
Tutti i luoghi hanno una propria memoria, sono custodi di avvenimenti che insieme raccontano una storia e contribuiscono a delineare personaggi e situazioni che a loro volta hanno influenzato il corso di altri eventi. Nel caso del Pastificio Cerere di Roma – dedicato alla dea delle messi, costruito nell’Italia dei primi del Novecento per ospitare una delle prime semolerie-pastifici industrializzati del Paese – si tratta di una storia lunga un secolo, condita di tanti ingredienti apparentemente slegati tra loro, il cui sapore è eccezionale.
D’altronde, chi poteva immaginare che un luogo così isolato dal centro culturale della capitale, con un progetto iniziale così lontano dall’essere una fabbrica di cultura, potesse oggi essere conosciuto per la più alta concentrazione di esponenti delle arti visive dell’Europa Meridionale? Infatti, dimessa la produzione di pasta nel 1960, la fabbrica è stata trasformata e ripopolata in pochi anni dagli artisti del Gruppo di San Lorenzo, pittori e scultori che hanno installato i propri atelier nei locali dell’ex Pastificio Cerere. Il momento cruciale di transizione da industria a luogo di produzione e diffusione dell’arte contemporanea fu sancito da Achille Bonito Oliva nell’estate del 1984, quando il critico aprì le porte del Pastificio alla mostra Ateliers, che altro non fu se non l’apertura fisica degli spazi dove abitavano e lavoravano principalmente gli artisti Nunzio, Bruno Ceccobelli, Gianni Dessì, Giuseppe Gallo, Marco Tirelli e Piero Pizzi Cannella.
Proprio quest’ultimo, chiamato ad omaggiare i dieci anni di attività della Fondazione Pastificio Cerere con gli altri cinque colleghi fondatori del Gruppo di San Lorenzo, ha risposto all’invito organizzandovi la propria personale da titolo Interno via degli Ausoni. Un riconoscimento nei confronti del luogo e del suo ruolo di fucina per la formazione di nuove generazioni di artisti, ma anche delle solide fondamenta gettate dai precursori del progetto artistico, i quali hanno risposto come Pizzi all’invito ad esporre, progettando ognuno una mostra che tracciasse i rispettivi percorsi e sottolineasse il proprio ruolo all’interno della storia del Pastificio. Piero Pizzi Cannella ad esempio, è nato nel 1955 nei pressi della capitale e fin da bambino si confronta con la pittura, proseguendo, all’Accademia di Roma, con la manipolazione dei materiali. Risale agli anni Settanta il suo trasferimento all’ex Pastificio ed è nel 1978 che presenta la prima personale ed anche la sua prima scultura, benchè sia solito dire “Non nasco come scultore. La scultura è un mio amore segreto, che non merito.” Attraverso la mostra Interno via degli Ausoni l’artista sceglie di ripercorrere momenti cardine della sua vita e della sua carriera, trentacinque anni di percorsi intrecciati a questi luoghi che egli condivide con affetto con il pubblico. Una mostra intima, giocata sulla memoria e la sospensione, scandita da opere che paiono affiorare da un ricordo, dalle profondità della mente.
La mostra si compone di una tela di grandi dimensioni, un’anfora in bronzo della serie La Fontana Ferma, installazione fortemente legata all’ex Pastificio, e da una serie di disegni su carta, presentati insieme per la prima volta. Dice Pizzi Cannella dell’ex Pastificio “Un esempio di come sia possibile trasformare l’idea di arte, un’idea legata al canone estetico, al bello, e unirla ad una vita in armonia con gli amici, che per un certo momento qui è stata possibile. C’era l’atmosfera giusta per stare insieme, c’erano non solo artisti ma anche scenografi, compagnie teatrali. È stata una crescita fortunosa.”
http://www.eastonline.eu/it/cultura/arte-e-architettura/i-luoghi-della-cultura-e-della-memoria-piero-pizzi-cannella-alla-fondazione-pastificio-cerere-a-roma

Un occhio al cielo ed uno alla terra. Ghirri, Friedman e Decavèle alla Fondazione Querini Stampalia di Venezia

Architettura, Arte contemporanea, Mostre
Pensate al potenziale di un incontro creativo tra un fotografo italiano, un architetto e designer polacco ed uno scultore francese. Immaginate tre punti di vista molto diversi in un momento rivoluzionario come quello del secondo dopoguerra, periodo di grandi sperimentazioni, spesso condivise dai tanti protagonisti della scena artistica di quegli anni. Andando nel dettaglio, immaginate come – quando ad incontrarsi furono le idee di Yona Friedman e Jean Baptiste Decavèle, oppure di Luigi Ghirri – la percezione ordinaria di opere e paesaggi attraverso una cornice oppure un obiettivo sia stata spazzata via, in una mescolanza di genere che ha messo tutto sullo stesso piano, dal contenitore allo spazio aperto, alla ricerca di una nuova poetica e di una nuova identità. La mostra Paesaggi d’aria è stata pensata proprio per evidenziare i punti di incontro tra i tre artisti visionari, accomunati nella ricerca di nuove prospettive che li mettessero in connessione con il paesaggio, in questo caso specifico quello italiano.
Luigi Ghirri nel 1969 fu letteralmente folgorato dall’immagine della Terra fotografata dalla Luna, la prima fotografia del mondo, l’immagine che contenne idealmente per la prima volta tutte le immagini esistenti. A partire da quel momento iniziò la sua ricerca, quella che lui stesso ha definito “la grande avventura dello sguardo e del pensiero. Il viaggio nell’inestricabile geroglifico del reale attraverso carte e mappe che contemporaneamente sono fotografie.” L’interesse per il tema del paesaggio crebbe nel corso degli anni Settanta insieme alla sua manualità e alla libertà del fare, un interesse concentrato sempre più sui luoghi meno turistici e quindi meno noti. Dagli anni Ottanta in avanti Ghirri strinse rapporti duraturi con architetti, urbanisti, filosofi, con cui condivise l’esigenza di creare una nuova iconografia del paesaggio italiano, sempre più attenta agli spazi del contemporaneo, un’attenzione da cui prese forma la grande serie che intitolò Paesaggio Italiano, iniziata nel 1980 e terminata con la sua morte improvvisa, nel 1992, a causa di un infarto.
Yona Friedman e Jean Baptiste Decavèle sono invece un architetto e uno scultore professionisti, da anni uniti nella condivisione di progetti riassumibili in una costellazione di invenzioni architettoniche, creazioni fotografiche e video che hanno dato vita ad un universo utopico calato in contesti reali. L’ultimo lavoro insieme è stato intitolato Vigna Museum, ed è parte fondamentale della mostra Paesaggi d’aria, all’interno della quale è illustrato per mezzo di un video documentario. Si tratta anche in questo caso di un’architettura visionaria che il duo ha studiato e realizzato in onore della prestigiosa casa vinicola italiana e del suo storico fondatore, Livio Felluga. In occasione del suo centenario, l’anno scorso l’azienda ha chiesto a Friedman e Decavèle di realizzare qualcosa che testimoniasse il rispetto e l’amore di Felluga per quei luoghi, coinvolti profondamente nel processo di creazione del suo vino. Ispirati da questa unione e dallo sguardo non convenzionale di Ghirri, il duo ha vissuto personalmente le colline friulane ed in seguito all’esperienza ha scelto di realizzare una serie di forme modulari totalmente aperte al paesaggio circostante. Il progetto messo in campo si basa sulla volontà di fusione con il contesto ambientale, le strutture sono state affiancate da cento piante di vite in modo che negli anni queste si arrampichino lungo i moduli fino a fondere le due identità, il naturale e l’elemento architettonico. Così come oggi le strutture incoraggiano ciascun visitatore a guardare attraverso lo spazio museale ciò che li circonda, a sentirsi pienamente inseriti nello spazio della vigna, così in futuro saranno parte del paesaggio che oggi contempliamo.
Facendo un passo indietro, la mostra Paesaggi d’aria – organizzata dalla Fondazione Querini Stampalia di Venezia in collaborazione con il neonato Fondo Ghirri, che trova spazio nella Fondazione stessa – vuole celebrare il parallelismo di sguardi di Ghirri e di Friedman e Decavèle. Il percorso espositivo è stato messo a punto da Chiara Bertola e Giuliano Sergio in collaborazione con Livio Felluga e RAM radioartemobile, con il fine di proporre una riflessione sul paesaggio italiano, punto focale per tutti gli attori di questa mostra. Un paesaggio amato, ricercato, riscoperto e modellato in modo tale da proporne un’immagine altra rispetto a quella tradizionale, ma sempre ugualmente potente e fedele a se stessa.
http://www.eastonline.eu/it/cultura/arte-e-architettura/un-occhio-al-cielo-ed-uno-alla-terra-ghirri-friedman-e-decavele-alla-fondazione-querini-stampalia-di-venezia

Studio ++. Il Giardino Cancellato

Architettura, Arshake, Arte contemporanea, Public art
Dieci anni fa tre giovani architetti hanno fondato a Firenze un progetto collettivo dal titolo Studio ++, messo in piedi per dare forma ad un percorso condiviso di ricerca artistica. La messa in opera, il contesto, il contatto con il pubblico, l’evoluzione, l’imprevisto sono gli elementi chiave del lavoro del trio, impegnato ad affrontare la realtà con l’occhio critico di chi conosce e sa impostare il rapporto tra spazio e materia, e vuole approfondire – in relazione a queste ultime – il valore del tempo e dell’impiego di nuove risorse prodotte dall’uomo, come le moderne tecnologie.
Fabio Ciaravella (1982), Umberto Daina (1979) e Vincenzo Fiore (1981) sono dunque affascinati dalla quotidianità e dal prodotto di relazioni multidisciplinari, di cui l’opera pubblica intitolata Il Giardino Cancellato, presentata all’interno delle seconda edizione del laboratorio Nel chiostro delle geometrie, si fa esempio calzante. Infatti, scelto uno spazio attivo e non convenzionale di Firenze, largo Annigoni, è stato impostato un progetto che affronti il rapporto tra architettura, vuoto e tempo. Il collettivo ha quindi realizzato sulla pavimentazione dello slargo una serie di geometrie che ricordano motivi e giardini arabeggianti. La particolarità? Il disegno è stato ricavato grazie all’impiego di un’idro-pulitrice ad alta pressione, che ha rimosso una patina di sporco ben delimitata – lasciata dal passaggio del tempo sulla superficie – rendendo possibile creare le composizioni volute. Si tratta di una sorta di opera pubblica in negativo, ottenuta dall’unione di più elementi che riguardano la città e il suo vissuto, sia quello evidente, sia quello di cui è permeata ma invisibile ad occhio nudo. L’eleganza delle forme, la delicatezza dell’approccio e contemporaneamente la potenza del contrasto de Il Giardino Cancellato spingono ad una riflessione che si estende oltre i confini del momento attuale, fino ad immaginare il futuro di questo spazio, abbandonato e non curato, e a meditare sull’importanza del tempo costruito e protetto dello spazio coltivato.
Si tratta di temi cari al collettivo: il vuoto, affrontato tramite la sottrazione e proposizione sotto nuove spoglie, è stato tradotto anche in altre installazioni come la serie Rosoni, ispirata alle vetrate delle chiese. Una riflessione su geometrie che da secoli abbelliscono spazi imponenti attraverso aperture studiate ad hoc, in questo caso riproposte in dimensioni ridotte ed attraverso la composizione di celle fotovoltaiche, una sorta di moderna restituzione della luce simbolica che ha filtrato attraverso di esse, letteralmente, nel tempo e nello spazio.
Breathing as a revolutionary message invece si è concentrata fisicamente sulla percezione dello spazio pubblico e la condivisione, lavorando nuovamente sull’idea di intervenire con decisa delicatezza all’interno di uno spazio urbano. Una persona, con un megafono vicino alla bocca nel bel mezzo di uno spazio pubblico, ha creato un’azione destabilizzante per coloro che si trovavano ad attraversare lo spazio del Cortile della Dogana a Palazzo Vecchio, Firenze, semplicemente amplificando il proprio respiro.
In sintesi, l’arte pubblica e l’arte contemporanea vissute da Studio ++ come perfetti terreni di indagine, di analisi del dubbio, di osservazione del contrasto tra presente e passato, di espressione di una tensione quotidianamente percepita e condivisa.
http://www.arshake.com/studio-il-giardino-cancellato/

L’arte della galleria. Damien Hirst apre le porte della Newport Street Gallery di Londra a John Hoyland

Architettura, Arte contemporanea, East magazine
Ogni spazio espositivo degno di nota ha un’anima, una personalità che si contraddistingue per le scelte artistiche, per lo stile degli allestimenti e si fa conoscere attraverso gli artisti supportati. Non succede spesso che, nel momento dell’apertura di un nuovo spazio, a richiamare l’attenzione del pubblico non sia tanto il nome del pur celebre artista esposto – in questo caso il britannico John Hoyland – quanto la mente ed il corpo dietro al progetto. Capita quando l’anima delle quattro mura in questione – quelle ben più numerose della neonata Newport Street Gallery – è conosciuta all’anagrafe con il nome di Damien Hirst, uno degli artisti viventi più famosi e potenti non solo nel suo paese natale, il Regno Unito, ma in tutto il mondo.
Ed è proprio a Londra, la sua capitale, che Hirst ha deciso di mettersi alla prova non più “solamente” come artista e collezionista, ma come promotore di arte contemporanea più o meno emergente, inaugurando la sua Newport Street Gallery nel quartiere di Lambeth, a sud del Tamigi ed in linea d’aria proprio sulla direttrice che conduce alla Tate Modern. Alla Newport Street Gallery il pubblico avrà l’occasione di ammirare sia mostre temporanee sia una grandiosa permanente, la Murderme Collection, espressione del genio imprenditoriale ed artistico di Hirst tanto quanto lo sono le sue stesse opere. Si tratta infatti di una collezione che egli ha costituito in circa 25 anni, scambiando le sue opere con quelle di artisti che – come lui – facevano parte del gruppo dei Young British Artists. Ad oggi, grazie al suo lungimirante baratto, la collezione conta oltre tremila pezzi di prestigio, firmati Bacon, Banksy, Tracey Emin, Richard Hamilton, Sarah Lucas, senza contare le opere acquisite da Hirst, realizzate da giovani emergenti come da grandi maestri del calibro di Picasso e Jeff Koons. Il tutto è coronato da una raccolta di oggetti cari all’artista, quali modelli di anatomia, animali imbalsamati, manufatti indigeni etc, attraverso cui Hirst ha sviluppato ormai storici capolavori e progetta nuove opere d’arte. Il suo ultimo lavoro, la Newport Street Gallery, si suddivide in cinque edifici progettati dagli architetti Caruso St John, dei quali tre sono di età vittoriana, restaurati ed adattati per ospitare grandi installazioni, e due totalmente inediti.
Ad inaugurare questi ampi spazi è la mostra John Hoyland: Power Stations (Paintings 1964–1982), una grande retrospettiva dedicata ad uno dei principali pittori inglesi della sua generazione, conosciuto soprattutto per la pittura astratta. Nato nel 1934, a cominciare dagli anni Sessanta Hoyland iniziò ad imporre sulla scena artistica nazionale ed internazionale il suo utilizzo istintivo ma calibrato di colore, spazio e forma. L’energia delle sue grandi tele – in questa occasione è possibile ammirarne una trentina, provenienti dalla collezione di Hirst – venne ispirata dal suo “periodo americano”, un decennio durante il quale l’artista scoprì e rimase folgorato dall’esordiente pittura astratta, diventandone un fervido sostenitore. Le potenzialità di una pittura non più legata agli obblighi e limiti del figurativo lo conquistarono, poiché gli offrirono la possibilità di fondere sentimento, istinto e significato in un’unica, essenziale, pennellata. Hoyland era famoso anche per la decisione con cui rifuggiva le etichette, compresa quella di astrattista. Uno dei motivi per cui amava questa forma di espressione artistica risiede proprio nella mancanza di una definizione assoluta, dunque nella libertà da parte sua di esprimere un pensiero, un sentimento, tanto quanto in quella del pubblico di leggerci qualcosa di totalmente diverso, ma non meno intenso.
Una celebre affermazione di Hoyland spiega che secondo l’artista “I dipinti devono essere percepiti, sentiti…non devono essere spiegati, non devono essere capiti, dobbiamo riconoscerci in loro”. Un concetto attorno a cui spesso ruota l’arte del nostro tempo, nel quale è probabile che in parte si sia riconosciuto lo stesso Damien Hirst.
http://www.eastonline.eu/it/cultura/arte-e-architettura/l-arte-della-galleria-damien-hirst-apre-le-porte-della-newport-street-gallery-di-londra-a-john-hoyland

Giochi di luce e realtà simulate. Olafur Eliasson al Moderna Museet di Stoccolma

Architettura, Arte contemporanea, East magazine, Mostre
Olafur Eliasson, artista danese classe 1967, vanta uno dei primati più sorprendenti dell’arte contemporanea: l’opera che lo ha consacrato come artista tra i più noti al grande pubblico – la sua famosa installazione, The Weather Project, un tramonto tra le pareti della Turbine Hall di Londra – ha richiamato nel 2003 oltre due milioni di visitatori in meno di 6 mesi, facendone la mostra di artista vivente più partecipata nella storia. Al momento non vi sono dati che attestino che Eliasson sia stato scalzato dal primo gradino del podio, in compenso nell’ultimo decennio ha sicuramente continuato a far parlare di sè per le sperimentazioni congiunte di arti visive, architettura, design e paesaggio, unite in un’ottica soggettiva di riscoperta in cui apparenza, realtà e verosimile si combinano con grazia e poesia. Non è un caso quindi che il Moderna Museet di Stoccolma abbia organizzato una grande personale dedicata a Olafur in collaborazione con ArkDes, Centro Svedese per l’Architettura ed il Design, concentrando l’attenzione sulla ricerca dell’artista più espressamente dedita alla comunicazione tra l’ambiente, l’arte e il visitatore, ricerca che Eliasson traduce in sorprendenti installazioni site-specific, videoarte, fotografia e progetti di design. Matilda Olof-Ors, curatrice dell’evento, presenta quindi Reality Machines, un ventaglio di installazioni che, come sempre, stravolgono lo spazio espositivo combinando luci, colori e sensazioni.
Olafur Eliasson da circa vent’anni è conosciuto proprio per l’alto tasso di coinvolgimento emotivo con cui il pubblico risponde alla visione delle sue opere, il cui segreto sembra l’equilibrio perfetto tra scienza e natura, tra artificiale e surreale, istinto e cultura. La parola chiave di ogni lavoro è la Percezione. Sfruttando moderne tecnologie e scenografie complesse, Eliasson mette in evidenza il fascino genuino degli elementi naturali, come la luce, l’acqua o il calore, ponendo il pubblico al centro dello scenario che ha costruito, perché reagisca agli stimoli cui lo sottopone. L’intenzione ultima, il filo conduttore di tutte le sue opere? Fare in modo che l’uomo ritrovi se stesso in questi ambienti che esaltano la natura attraverso l’artifizio, creando sapienti giochi di luce e di prospettiva, muovendo la scienza a favore dell’ecologia. L’uomo al centro dell’ambiente dunque, per quanto ipertecnologico possa essere diventato nella realtà odierna, nella speranza che riscopra la natura e la vita.
Si capisce quindi come gli spazi espositivi siano alla base della scelta dell’artista, poiché è appositamente in questi luoghi che Eliasson realizza le sue installazioni e ambienta le sue sculture. Il Moderna è un simbolo sia in quanto istituzione nota per i tratti sperimentali del suo programma, sia per la sua collocazione, una sorta di santuario distaccato dalla città, situato su un’isola e collegato alla capitale da un lungo ponte. Il feeling con questi spazi per Olafur è stato immediato, e non poteva esistere scenario migliore per ambientare una ventina di opere che ripercorrano parte dei suoi esordi, dai primi anni Novanta, fino ai lavori dei giorni nostri, compresa Model Room, una delle opere chiave dell’artista danese, acquisita in quest’occasione dal Moderna. Si tratta di un archivio tridimensionale realizzato con uno dei suoi storici collaboratori, l’architetto Einar Thorsteinn, un contenitore unico che l’artista ha continuato ad aggiornare nel tempo, raccogliendovi i modelli realizzati per tutti i suoi lavori. Una perfetta sintesi dell’essenza di Olafur, riassunta altrettanto bene nelle parole di Paul Virilio, urbanista e filosofo “Il lavoro di Olafur Eliasson si colloca oltre la land art, come tentativo di irrompere nella profondità ottica delle apparenze […] I suoi lavori silenziosamente ci reintroducono nel mistero dell’apparizione che condiziona tutto ciò che è verosimile.”
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Candida Höfer. Memory of Museo Hermitage, San Pietroburgo

Architettura, Arte contemporanea, East magazine, Mostre
“Volevo catturare il comportamento delle persone all’interno di edifici pubblici, così ho iniziato a scattare fotografie di teatri, palazzi, teatri, biblioteche e simili. Dopo qualche tempo, è diventato chiaro per me che quello che fanno le persone all’interno di questi spazi – e quale traccia questi spazi lasciano in loro – è più evidente quando nessuno è presente, proprio come un ospite assente è spesso oggetto di una conversazione”.  Lineare, pulita, precisa al millimetro, come una delle sue tante, celebri fotografie, a proposito delle quali l’Hermitage è fiero di presentare un’inedita selezione di venticinque immagini legate ad una visita ufficiale della fotografa risalente all’anno scorso.
Così Candida Höfer commenta il suo lavoro, cominciato nel 1976 tra i banchi dell’Accademia tedesca di belle arti di Düsseldorf, un percorso scoperto e incoraggiato da Bernd e Hilla Becher, che furono non solo suoi insegnanti nella Classe di fotografia, ma veri e propri fautori di un nuovo approccio tecnico alla fotografia, basato sulla consapevolezza dell’operatore e sull’idea che deve guidarlo dietro l’obiettivo. Grazie all’alto livello di istruzione e di formazione tecnica e artistica ricevuta, Candida Höfer è oggi considerata una maestra della fotografia contemporanea, al pari dei colleghi Andreas Gursky, Thomas Ruff e Thomas Struth. Ciò che differenzia le sue immagini da quelle di questi ultimi coetanei altrettanto celebri, è la cura che dedica a rivelare tutto il possibile di ogni spazio inanimato su cui si sofferma, consacrandone la personalità unica, potenziandone il carisma a prescindere dal fatto che siano edifici più o meno famosi, contenitori di storie e accadimenti degni o meno di nota. Candida Höfer ha ritratto architetture di ogni epoca come se stesse fotografando grandi personaggi – intesi come soggetti parlanti -, dando voce alla luce, permettendole di invadere ogni angolo e rivelare ogni curva, ogni dettaglio. Infatti, altra caratteristica immediatamente riconoscibile nelle opere della Höfer è la luminosa trasparenza della fotografia, ripresa sempre e rigorosamente in condizioni di luce naturale, quando i luoghi prescelti risplendono al massimo della loro potenza espressiva. Inoltre, per essere certa che non venga perso alcun particolare, è sua abitudine mostrarli al pubblico in formati generosi, spesso di due metri per due.
Non stupisce quindi come davanti al suo obiettivo molti capolavori architettonici quali musei, biblioteche, palazzi reali abbiano incantato il pubblico e la critica, e come contemporaneamente abbiano raccontato storie che celebrano il passato, fatte di stile e conoscenza, eleganza e precisione. Non a caso la sua ultima personale, allestita presso gli spazi dell’Hermitage di San Pietroburgo, è stata intitolata Memory. Essa rende omaggio ai tesori dell’architettura imperiale del tempo degli zar attraverso venticinque scatti, una panoramica esaustiva realizzata dall’artista durante l’estate dello scorso anno, quando in due settimane ha potuto ammirare il teatro Mariinsky e il Palazzo Yusupov, il Palazzo di Caterina a Pushkin e la Biblioteca Nazionale russa, e, naturalmente, le gallerie del Palazzo d’Inverno, oggi museo dell’Hermitage.  Il reportage oggi visibile nelle sale dello scrigno imperiale è un omaggio commovente all’amore russo per il rococò e per lo stile neoclassico, per lo sfarzo e il rigore, la storia e la leggenda.
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Sette anni nel Sahara. La Tuiza di Federico Guzmán al Palacio de Cristal di Madrid

Architettura, Arte contemporanea, East magazine
Avete presente la città di Madrid?
Allora chiudete gli occhi e focalizzate i tesori della capitale spagnola, fino al magico Palacio de Cristal, luccicante nel sole madrileno, affacciato su un laghetto artificiale ed incorniciato dalla vegetazione del Parque del Retiro. Fatto? Ora collocate al suo interno una gigantesca, sgargiante tenda beduina. Riuscite a immaginare l’effetto tra la struttura in metallo e cristallo del Palazzo ed i colori africani, l’atmosfera ovattata, lo spazio intimo e accogliente della tenda? Se faticate ad avere una visione dettagliata della scena descritta c’è una soluzione pratica, ed è quella di farvi trovare sul posto entro il 30 agosto 2015, giorno in cui l’artista Federico Guzmán leverà letteralmente le tende da questo spazio suggestivo, per portare la sua installazione al Museo San Telmo di San Sebastián.
Guzmán, artista andaluso classe 1964, ha vissuto sulla propria pelle l’amore per una terra, il Sahara, e l’impegno per ottenere la fiducia e il rispetto della gente che ne solca da sempre le dune di sabbia, i nomadi e beduini. Per sette anni l’artista ha coltivato i rapporti con questo popolo, costruendo a poco a poco, attraverso lo scambio con le persone, un percorso artistico frutto del rapporto tra l’arte stessa ed un’identità culturale molto ben definita. Questa collaborazione nel dialetto arabo viene espressa con il termine Tuiza, con il quale si rende l’idea di un risultato ottenuto tramite il lavoro della collettività, un concetto che prevede l’incontro, la partecipazione, lo scambio ed infine la produzione o costruzione di qualcosa che è frutto del lavoro di più personeGuzmán ha scelto proprio questo termine per dare un nome al suo ultimo progetto, La Tuiza. Las culturas de la jaima, rappresentato da una tenda, dentro la quale raccontare parte e conseguenza del suo rapporto con le popolazioni indigene del Sahara. A cominciare dalle stoffe scelte, in parte classiche – come il tetto, realizzato con il benias, un sottile telo acrilico decorato con motivi geometrici molto colorati di solito utilizzato anche per i lati della tenda – e in parte frutto del suo intervento artistico, con il quale ha scelto di realizzare una composizione di melhfas, i vestiti tradizionali realizzati dalle donne sahariane, per chiudere i quattro lati della tenda.
In sintesi, l’idea dell’artista di montare una tenda beduina in uno spazio fortemente identitario per la cultura spagnola come il Palacio de Cristal, invita alla condivisione e alla produzione multietnica, e lo fa attraverso l’idea di accoglienza. La grande, colorata tenda Saharawi è la casa tradizionale dei nomadi del deserto, uno spazio privilegiato per invitare al dialogo culture differenti, coinvolte in laboratori e attività di gruppo studiate appositamente per creare un avvicinamento naturale tra poli opposti, attività che si ripeteranno durante tutto il periodo della mostraIl multiculturalismo coinvolgerà la poesiala musica, le performance e il cinema, verranno organizzate conferenze e momenti di discussione legati ai modi di vivere in comunità.
Il modo migliore di creare sinergia anche tra le istituzioni del suo Paese, in particolare tra il Museo Reina Sofía di Madrid e la Fondazione Donostia di San Sebastián, eletta Capitale Europea della Cultura per il 2016.
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L’uomo e l’architetto. Le Corbusier in mostra al Centre Pompidou di Parigi

Architettura, Arte moderna, East magazine
Il cinquantenario della morte di una delle figure chiave della Storia dell’Architettura è divenuta occasione di celebrazioni per la patria che ha adottato e visto erigersi e consolidarsi – letteralmente – il percorso artistico di Charles-Edouard Jeanneret, meglio conosciuto come Le Corbusier.
L’invito a visitare la retrospettiva dedicata a “Le Corbu” architetto e urbanista visionario, teorico della modernità ma anche pittore e scultore, è valido dal 29 aprile al 3 agosto 2015, in una location d’eccezione quale il Centre Pompidou di Parigi.
La storia di Charles cominciò in Svizzera nel 1887, e vide il giovane protagonista confrontarsi con le tradizioni familiari e della sua cittadina, un mondo dedito all’orologeria e dunque all’attenzione per i dettagli, insegnamento rivelatosi prezioso per i tanti progetti che seguirono. Egli infatti manifestò al termine dei suoi studi un interesse specifico nei confronti dell’Architettura, e nel 1905, data la sua evidente predisposizione per la materia, venne incoraggiato dai suoi insegnanti e dalla famiglia a perseguire il suo obiettivo. Grazie ad un periodo passato da autodidatta in viaggio per tutta l’Europa, le sue nozioni crebbero e sfociarono in una vera e propria passione per l’Art nouveau, per le linee gotiche e le strutture rinascimentali. Fino a che, nel 1920, egli non fu in grado di confrontare gli stili studiati e i dettagli delle strutture più complesse, scegliendo consapevolmente di indirizzare la propria capacità di espressione in un direzione precisa, fatta di linee forti e pulite.
Da quel momento, Charles lasciò posto ufficialmente a uno dei maestri del Movimento Moderno, ribattezzandosi Le Corbusier, pseudonimo con il quale è conosciuto fin dall’autunno di quei primi anni Venti, dal cui gioco di parole venne la sua abitudine di firmarsi spesso con la sagoma di un corvo.
I lavori di Le Corbu nel tempo si mostrano quale espressione concreta della loro stessa utilità, del binomio chiave “forma-funzione” che permea qualsiasi lavoro dell’artista. Infatti, tanto l’abitazione quanto l’oggetto, spogliati di qualsiasi orpello, riconquistano tra le mani e la penna di Le Corbu la loro essenza e un’armonia dimenticata – quella immediata e sincera della semplicità – senza dimenticare mai che al centro di ogni creazione vi è sempre, costantemente, la percezione dell’essere umano, il fruitore di qualsiasi forma e funzione. Le sperimentazioni acustiche, i lavori improntati sull’illuminazione degli spazi, i progetti di residenze collettive che hanno popolato la sua lunghissima carriera, durata quasi 60 anni, hanno sempre la figura umana come epicentro e fulcro, come stella polare e musa ispiratrice.
Le Corbusier realizzò 75 edifici in 12 nazioni, una cinquantina di progetti urbanistici – tra cui il piano di fondazione di una nuova città, Chandigarh, la capitale del Punjab in India – e centinaia di progetti non realizzati, ma fu l’America del secondo dopoguerra a farsi portavoce definitiva del suo talento e ad amplificarne il successo, sostenendo i primi pionieristici esperimenti con il cemento armato, in seguito struttura portante non solo delle sue abitazioni, ma dell’urbanistica contemporanea.
Il Centre Pompidou con quest’imponente retrospettiva vuole mostrare al pubblico l’evoluzione di questa grande figura della modernità attraverso trecento opere che ne raccontano la storia come pittore, scultore, architetto, urbanista e soprattutto come uomo. Tutti i suoi lavori sono focalizzati sulla nozione di proporzione umana, sul concetto di percezione fisica e sulla cognizione di spazio data dall’interazione tra quest’ultimo, il tempo e l’energia. La dimensione umana, un principio universale per Le Corbu ed oggi punto di partenza nella definizione di tutte le dimensioni dell’architettura.
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