ASCOLTA IL TUO CUORE CITTÀ. RESTAURI AL CENTRO DI PERUGIA

Architettura, Arte contemporanea, Il Giornale delle Fondazioni, Interviste
Il 31 ottobre 2018 sono stati inaugurati ed aperti al pubblico il Terzo e il Quarto piano di Palazzo Baldeschi al Corso, edificio di proprietà della Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia situato nel centro storico della città, in passato residenza storica ed oggi moderno spazio museale. Un impegno per il recupero della tradizione architettonica ed artistica della città in funzione delle nuove iniziative culturali e di coinvolgimento del pubblico di cui parliamo con Giampiero Bianconi,presidente della Fondazione.
La Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia, operativa ufficialmente sul territorio dal 1992, promuove da più di venticinque anni la cultura della Conservazione e del Restauro delle opere d’arte, acquisendo per la propria collezione opere d’arte profondamente legate alla storia del territorio e, contemporaneamente, lavorando per un recupero mirato del patrimonio architettonico locale, contenitore d’eccellenza per strutture operative di rappresentanza e nuovi spazi espositivo-museali.
E’ il caso di Palazzo Baldeschi al Corso, storico immobile risultato della fusione di vari edifici tra il centralissimo Corso Vannucci, Via Danzetta, Via Baldo, Via dello Struzzo e Via Baglioni, già destinato a sede espositiva al momento dell’acquisizione nel 2002, oggi completato nel suo progetto di restauro con il ripristino del Terzo e Quarto piano del Palazzo.
I due ambienti ed il nuovo allestimento sono stati curati dall’architetto Carlo Salucci e dal professor Francesco Federico Mancini, i quali hanno creato un percorso espositivo permanente che ospita circa duecento pezzi tra dipinti, sculture e disegni della collezione, uniti tra loro dal fil rouge della geolocalizzazione, poiché sono tutte opere di artisti umbri o che hanno lavorato sul territorio tra il 1400 e il 1900. In particolare, parte del Terzo e l’intero Quarto Piano appena inaugurati sono stati destinati all’arte contemporanea, permettendo così al pubblico di ammirare ad esempio il lascito dell’artista umbra Maria Pistone e le opere del pittore perugino Gerardo Dottori, tra i massimi interpreti del Futurismo e maestro dell’aeropittura, acquisite negli anni dalla Fondazione.
La nuova occasione espositiva è dunque un ottimo pretesto per godere del quadro completo degli interventi che nel tempo hanno restituito l’originaria geometria alle varie stanze del Palazzo, considerato un ponte tra passato e futuro, oggi pronto ad assumere il ruolo di polo museale attivo e propositivo, dove il variegato patrimonio artistico della Fondazione ha trovato perfetta collocazione.
Abbiamo parlato con Giampiero Bianconi, presidente della Fondazione del lungo progetto di restauro ed in generale delle iniziative improntate dalla Fondazione alla tutela dei beni culturali, per capire meglio le strategie in termini di investimenti e valorizzazione del patrimonio locale.

La Fondazione CRPG svolge da oltre venticinque anni un importante doppio lavoro di tutela e promozione del patrimonio artistico, in prima persona arricchendo la preziosa collezione di opere d’arte mobili ed investendo nelle grandi realtà storiche di Perugia, Assisi e Gubbio – rilevando dimore storiche come Palazzo Baldeschi e dando loro una nuova vita come contenitori e promotori di iniziative culturali -, in secondo luogo finanziando progetti di restauro ed attività didattiche attraverso bandi e contributi. Può darmi un quadro generale in merito alle strategie e l’impegno, anche economico, della Fondazione in termini di sostegno ed investimento in iniziative culturali? 
Come giustamente ha osservato, uno degli obiettivi della Fondazione è proprio quello di tutelare e promuovere il patrimonio artistico del suo territorio. L’Umbria è una regione estremamente ricca d’arte e di storia e la Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia si è sempre mostrata particolarmente sensibile alla valorizzazione e alla conservazione dei beni artistici che ne testimoniano la considerevole tradizione culturale. Lo dimostra, in modo particolare, il suo impegno teso a creare un’ampia raccolta d’arte, frutto di acquisizioni mirate, il cui scopo è quello di non disperdere l’importante patrimonio artistico di questa regione. Oggi la collezione di opere d’arte della Fondazione, allestita a Perugia presso Palazzo Baldeschi al Corso, è tra le più prestigiose e rilevanti sul territorio. Da non dimenticare poi l’acquisizione di immobili storici di grande pregio a Perugia, Assisi e Gubbio, i quali, dopo accurati restauri, sono di nuovo fruibili dalla collettività, divenendo vitali centri culturali. Questo sforzo teso a favorire la salvaguardia e la promozione del patrimonio artistico-culturale umbro è stato motivato da una duplice ragione: da un lato, il valore simbolico-identitario e di memoria storica che tale patrimonio riveste; e dall’altro la grande capacità attrattiva sul piano del turismo che esso possiede e che merita di essere sostenuta per i benefici economici, diretti e indiretti, che ne possono derivare. La scelta di impegnarsi in modo così continuo sul versante dell’arte e della cultura risponde ad un preciso indirizzo strategico, che caratterizza la Fondazione sin dalla sua nascita nell’ormai lontano 1992. Uno dei settori d’intervento più importanti in questi anni è stato proprio quello dell’arte, delle attività e dei beni culturali. Ogni anno la Fondazione, attraverso lo strumento del bando, infatti, ha potuto erogare importanti somme di denaro per il restauro di opere d’arte e per la realizzazione di eventi culturali. In questi oltre venticinque anni di attività a questo particolare settore abbiamo dedicato risorse per un ammontare pari a 91 milioni di euro: il che corrisponde al 37,9% del complesso delle nostre erogazioni. Tuttavia attualmente, in un periodo di grande difficoltà economica, nel quale si è acuita la vulnerabilità di ampie fasce di popolazione portando all’impoverimento economico e di conseguenza sociale e culturale, la Fondazione ha ritenuto indispensabile concentrarsi sul settore del volontariato dando impulso a forme innovative di welfare.

La Fondazione CRPG ha acquisito l’antico Palazzo Baldeschi – dimora storica dalla forte valenza simbolica per la città ed i suoi abitanti collocata proprio nel cuore storico di Perugia – destinandolo ad una funzione di costante promozione culturale. Perseguire questo fine ha voluto dire programmare negli anni una serie di interventi mirati, finalizzati al ripristino dei vari piani del Palazzo, di cui il terzo e quarto completati ed inaugurati da pochi giorni. Mi può raccontare quante campagne di restauro si sono rese necessarie per il recupero del Palazzo e quanto tempo hanno richiesto? 
I lavori di restauro di Palazzo Baldeschi al Corso sono stati lunghi ed estremamente complessi. L’intento della Fondazione, data la collocazione dell’immobile nel centro storico cittadino, è stato quello di destinare l’edificio a contenitore museale. La storica dimora, già sede del Microcredito Regionale Umbro, è stata acquistata dalla Fondazione nel 2002. A partire dagli anni 2000 sono iniziati i primi interventi di natura conservativa suddivisi in stralci funzionali: nel 2007 è stata allestita la prestigiosa Collezione di Maioliche Rinascimentali; successivamente sono iniziati i lavori per accogliere la consistente Collezione Alessandro Marabottini (circa 700 opere) inaugurata nel 2015 ed infine sono stati recuperati gli spazi al terzo e quarto piano adeguatamente restaurati per ospitare la collezione di opere più importanti della Fondazione unitamente ad alcuni lasciti. Lo scorso 30 ottobre, dopo molti anni di lavoro, è stato possibile aprire nella sua interezza questo meraviglioso complesso, finalmente a disposizione dei visitatori.

Che tipo d’intervento si è reso necessario nelle sale del Palazzo? Il progetto di intervento è da considerarsi oggi completato? 
Nelle sale recentemente inaugurate, così come nel resto del Palazzo, è stato necessario eseguire tutta una serie di lavori relativi alle opere murarie, agli impianti elettrici, idraulici, di climatizzazione e di illuminazione, impianti di videosorveglianza, finiture e lavori per la sicurezza antincendio. Tale impresa ha visto la collaborazione di maestranze locali altamente specializzate in grado, con le loro competenze, di convertire un Palazzo che nel tempo ha subito varie destinazioni d’uso, in un funzionale centro espositivo-museale di grande richiamo per il pubblico locale e nazionale, aumentando così l’offerta culturale del territorio. Il progetto d’intervento può oggi considerarsi concluso, il Palazzo interamente accessibile al pubblico.

La tutela e salvaguardia del territorio sono temi molto sentiti dalla Fondazione, per cui immagino che siano state attivate collaborazioni con diversi professionisti e specialisti del settore. Iniziative analoghe su territorio nazionale hanno coinvolto anche Università, Centri di restauro e giovani restauratori, chiamati ad applicare sul campo le competenze acquisite, grazie a stage mirati e supervisionati. La Fondazione CRPG ha mai promosso attività di questo tipo? Pensa che possa essere un tema di interesse per il futuro? 
Nella gestione del suo patrimonio artistico la Fondazione si trova spesso a collaborare con professionisti e specialisti del settore. Personalmente ritengo che il coinvolgimento di altri Enti in imprese del genere possa essere estremamente proficuo e sia in grado di apportare un valore aggiunto agli obiettivi che ci prefissiamo. Occorrerebbe sempre creare un sistema di rete e di collaborazione tra diverse istituzioni, sia pubbliche che private, ognuno mettendo in campo le proprie competenze, creando delle sinergie che diano opportunità di crescita. Ad esempio dare la possibilità a giovani restauratori di applicare sul campo le proprie competenze è sicuramente un tema di grande interesse e proprio a questo proposito, recentemente, la Consulta delle Fondazioni delle Casse di Risparmio Umbre in collaborazione con la Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio dell’Umbria hanno realizzato un bando per la selezione di una task force di restauratori per svolgere attività di messa in sicurezza e di restauro delle opere provenienti dall’area della Valnerina colpita dal sisma del 2016. La nostra Fondazione ha aderito con entusiasmo a questa iniziativa.

A proposito degli interventi promossi dopo le scosse degli ultimi anni, sono state portate avanti diverse iniziative a sostegno dei territori colpiti dal sisma. Un esempio concreto è dato dal protocollo d’intesa firmato dalle Fondazioni di origine bancaria del territorio, tra cui la Cassa di Risparmio di Perugia, che hanno messo a disposizione in totale 3 milioni di euro, grazie ai quali le piccole e medie imprese che operano nelle regioni colpite dai terremoti dello scorso anno possono disporre di un plafond di finanziamenti fino a 15 milioni di euro. «Crediamo che questa iniziativa sia un importante segnale per le imprese dei territori colpiti dal sisma – ha dichiarato Giampiero Bianconi – che testimonia l’impegno concreto delle Fondazioni a sostegno del tessuto socio-economico in cui operano. Il nostro sistema imprenditoriale è costituito prevalentemente da piccole e medie imprese che esprimono il senso delle tradizioni della cultura dei luoghi in cui sono nate e in cui si radicano. Sono le realtà che hanno subito i maggiori impatti della crisi e pertanto è fondamentale che vengano accompagnate sulla strada della ripresa, a maggior ragione in situazioni così critiche come quelle in cui si trovano ad operare le imprese dei territori colpiti dal terremoto.»

Quali sono gli obiettivi della Fondazione per il prossimo futuro? Vi sono nuove realtà nei confronti delle quali state pianificando interventi di recupero e valorizzazione? 
Come ogni anno, sicuramente anche nel 2019 saranno pubblicati bandi destinati alla conservazione e valorizzazione dei beni culturali. La Fondazione ha sempre creduto nell’importanza di questi interventi proprio perché ritiene i beni culturali umbri patrimonio della comunità. Relativamente alle collezioni della Fondazione invece verranno senz’altro valorizzate attraverso una serie di iniziative che prevedono incontri, attività didattiche e laboratoriali. Inoltre i nostri palazzi ospitano spesso mostre temporanee organizzate dal nostro ente strumentale, la Fondazione CariPerugia Arte, sempre impegnata nella promozione culturale.

http://www.ilgiornaledellefondazioni.com/content/ascolta-il-tuo-cuore-citt%C3%A0-restauri-al-centro-di-perugia
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STORIA DI UNA COLLEZIONE ROMANA E DI CONNESSIONI TRA ANTICO E CONTEMPORANEO

Arte contemporanea, Il Giornale delle Fondazioni, Interviste
La Fondazione Dino ed Ernesta Santarelli  a Villa Lontana, Roma – da più di quindici anni attiva per la ricerca e la divulgazione della storia dell’arte antica, in particolare quella romana – ha recentemente ampliato il proprio raggio d’azione, attivando una collaborazione con curatori e artisti contemporanei impegnati nel recupero di Villa Lontana, alle porte della capitale. Ne parliamo con Daniela Ricci, curatrice scientifica della Fondazionee la curatrice degli eventi di Villa Lontana, Vittoria Bonifati.
La Fondazione Dino ed Ernesta Santarelli è stata istituita il 19 marzo 2004 dai figli di Dino ed Ernesta Santarelli, imprenditori e grandi collezionisti d’arte antica, con l’intenzione di perseguire gli intenti dei defunti genitori, da sempre grati alla città di Roma e per questo attivi nel panorama culturale della città. Una riconoscenza espressa infatti attraverso opere di divulgazione e tutela delle sue ricchezze architettoniche ed artistiche, mediante la promozione in prima battuta di iniziative culturali, pubblicazioni, prestiti ad Enti e Istituti ed esposizioni temporanee delle opere collezionate negli anni.
Un’attenzione particolare che non ha però impedito alla Fondazione di ampliare orizzonti e terreni di azione e partecipazione, come dimostra la recente collaborazione con Villa Lontana, storico edificio romano di recente riportato agli antichi splendori dopo secoli di abbandono, attorno al quale è stato costruito un programma che prevede esposizioni temporanee di opere di artisti contemporanei, la prima da poco conclusa intitolata Sculptureless Sculpture, la seconda invece inaugurerà dopo la pausa estiva. Un’iniziativa eccezionale, se si considera che il cuore della collezione Santarelli è composto soprattutto da marmi colorati, sculture e gemme, legato ad un interesse particolare nei confronti della scultura lapidea e alla glittica, una passione che non ha impedito di trovare punti di contatto con il contemporaneo, di supportare i giovani artisti e farsi fonte di ispirazione oltre che voce con cui avviare un dialogo proficuo.
Come si incontrano e collaborano proficuamente due realtà incentrate su percorsi così differenti? Ne abbiamo parlato con Daniela Ricci, storica dell’arte della Fondazione, e la curatrice degli eventi di Villa Lontana- insieme alla collega Jo Melvin – Vittoria Bonifati per saperne di più sulle attività previste per quest’anno ed i risultati raggiunti in quasi due decenni di lavoro.
La Fondazione Santarelli è nata nel 1999 a Roma, per volere di Paola, Santa e Antonio Santarelli, in memoria dei genitori collezionisti. La vostra raccolta di opere d’arte è famosa per comprendere pezzi unici della statuaria romana, marmi colorati della Roma imperiale e pitture su pietra, opere che spaziano dal periodo tolemaico all’inizio del XIX secolo. Di recente si è parlato della collezione in relazione ai progetti in collaborazione con Villa Lontana, a Roma. Potrebbe fornirci qualche informazioni aggiuntiva in merito a questo particolare contesto? 
(Daniela Ricci) La campagna romana è ricca di dimore che associano il carattere residenziale a quello agricolo, caratterizzate da un casino al centro di campi di vaste estensioni con alcuni manufatti rustici a uso dei contadini. Lungo la via Cassia, nell’area già appartenente alla più ampia tenuta della Farnesina, detta anche di Tor Vergata, Villa Lontana ne è un esempio illustre: un fondo antico, sui resti di tombe e costruzioni romane lungo la via consolare, con un’estensione di terreni che giungeva fino a Ponte Milvio, un casino destinato ai soggiorni dei proprietari che nei secoli si è arricchito di arredi di pregio e di un giardino circostante. La tenuta di Tor Vergata è menzionata sin dal Medioevo, importante per la sua vicinanza allo snodo del traffico viario costituito da Ponte Milvio e al tracciato della Via Francigena. Tra le opere di scultura che fanno parte dell’arredo del casino di villa e che furono acquisite, molto probabilmente, dal principe Stanislao Poniatowski, rivestono un ruolo centrale i rilievi di pertinenza di Antonio Canova, copie in gesso da originali antichi di grande pregio conservati nei maggiori musei del mondo quali i Vaticani, il Nazionale di Napoli o il Louvre di Parigi. Al principe polacco sono attribuite consistenti migliorie della tenuta e, soprattutto, la decorazione del casino con uno splendido rilievo in marmo, opera di Berthel Thorvaldsen, raffigurante “Il Trionfo di Alessandro” a Babilonia. Tra i successivi proprietari della Villa il console inglese Giovanni Freeborn – a cui va attribuita la denominazione di Villa Lontana – che vi soggiornò dal 1832 al 1859 e che introdusse notevoli migliorie, tra le quali la creazione di uno splendido giardino organizzato secondo lo stile “all’inglese”, ricco di piante provenienti da paesi lontani. La storia successiva non riserva elementi degni di nota, ma è segnata da una progressiva perdita di importanza della tenuta e, a partire dal dopoguerra, dalla lottizzazione di gran parte del terreno, fino alla riduzione dell’estensione di pertinenza della Villa a poco più di un ettaro e mezzo.
Nel 2013 la Fondazione Dino ed Ernesta Santarelli ha pubblicato un importante volume dedicato alla storia di Villa Lontana, per raccontarne le vicende storiche dalla costruzione fino al recente restauro conservativo che ha valorizzato la struttura. Potrebbe raccontarmi qualcosa di più in questo senso, in termini di tempistiche richieste sia dall’intervento di restauro, sia di approfondimento e studio di una realtà tanto amata dai cittadini della Capitale? 
(Ricci) Ripercorrere la storia della Villa Lontana ha permesso di analizzare le trasformazioni di un territorio che da campagna è diventata zona residenziale, di una tenuta che da vigna si è trasformata in giardino esotico, di un edificio che da casale rurale ha assunto l’aspetto di casino di delizie, seguendo le tracce di illustri personaggi che vi hanno lasciato i segni del loro passaggio, e fino all’ultimo intervento che ha dato nuovo lustro e decoro al luogo, arricchendolo di una collezione di pregevoli sculture di grandissimo interesse, sistemate in ambienti valorizzati da pavimenti di marmi romani che riprendono prestigiosi esempi di età imperiale. Il restauro del complesso, realizzato nel 2005-2006 con grande rigore filologico e rispetto dell’assetto storico, ha fornito l’occasione per ripercorrerne la storia, a partire dal ruolo dell’antica via Cassia e di Ponte Milvio. Gli scavi effettuati nell’area per la realizzazione di un parcheggio interrato hanno consentito la scoperta di una interessante necropoli con ben 160 tombe scavate e dotate di corredi funerari di grande importanza. Sono state ritrovate anche alcune epigrafi che testimoniano la presenza, lungo la via consolare, di tombe di soldati pretoriani romani per lo più provenienti dall’Etruria.
L’inizio del 2018 ha visto la presentazione di un nuovo progetto curatoriale con sede proprio a Villa Lontana, incentrato sulle produzioni artistiche contemporanee. L’idea e lo sviluppo del progetto sono opera di Vittoria Bonifati, curatrice specializzata nel contemporaneo, che lavora tra Londra, l’India e Roma, insieme alla curatrice inglese Jo Melvin. La prima mostra è stata inaugurata il 16 maggio 201 con il titolo Sculptureless Sculpture, un percorso espositivo studiato in collaborazione con la Fondazione e le sue collezioni. Mi può raccontare com’è nata la collaborazione con una realtà ed un progetto artistico legati in particolare alla contemporaneità? 
(Vittoria Bonifati) In realtà la prima collaborazione della Fondazione Santarelli con il contemporaneo è iniziata nel 2016 – e si è conclusa pochi giorni fa – acquistando Flat Time House, la casa studio dell’artista concettuale inglese John Latham. Dopo la sua morte, avvenuta nel 2007, la famiglia di Latham ha deciso di trasformare il suo studio in uno spazio non-for-profit per sviluppare mostre, programmi di residenza e workshops basati sulla ricerca curatoriale e artistica. La famiglia Santarelli è venuta a conoscenza del lavoro di John Latham nel 2014 alla Triennale di Milano – prima mostra personale dell’artista in un’istituzione italiana – cogliendo molti parallelismi tra lo sviluppo della pratica artistica di Latham e l’arte italiana dagli anni ’60. Roma è stata una città di grande importanza per John Latham: nel 1944, durante la liberazione di Roma dagli alleati durante la Seconda Guerra Mondiale, Latham visitò Palazzo Venezia, dove erano esposti due dipinti di El Greco. L’artista racconta di aver avuto “un’istante visione” (“instant vision”) che lo ha segnato profondamente nella sua coscienza, tanto che il lavoro di El Greco è diventato molto importante per lo sviluppo artistico di Latham. La scoperta di questa vicenda ha avvicinato molto la famiglia Santarelli al lavoro di Latham e al programma artistico di Flat Time House, e quando nel 2016 quest’ultima ha rischiato di chiudere per mancanza di fondi, la Fondazione Santarelli è intervenuta mettendo al sicuro la proprietà, per creare un ponte tra l’antico e il contemporaneo e permettere a Flat Time House di continuare il programma di mostre residenze e workshops così centrale alla sua identità. Le due Fondazioni hanno diverse storie e obiettivi, ma per entrambi l’importanza di raccontare e condividere una storia con un pubblico più ampio – una l’amore per Roma e la sua storia, l’altra la pratica artistica di John Latham in conversazione con il lavoro di altri artisti contemporanei – è la chiave di tutto, una chiave comune.
Personalmente erano diversi anni che immaginavo un modo per aprire la collezione Santarelli alla contemporaneità, ma non avevo ancora trovato la giusta chiave di lettura per avviare un nuovo dialogo – così presente in una città come Roma –  tra l’antico e il contemporaneo. Ora si è presentata l’occasione. La direzione artistica del progetto è curata da me e Jo Melvin e prevede lo sviluppo di due mostre ogni anno a Villa Lontana, insieme a un programma di residenze per artisti. Immaginiamo di invitare un artista ogni anno a Villa Lontana che avrà accesso, per la sua ricerca e sviluppo artistico, agli archivi ed alla collezione della Fondazione Santarelli. La prima mostra è stata appunto “Sculptureless Sculpture” e si è sviluppata a seguito di una lunga conversazione con Jo Melvin e l’artista inglese Jeff Gibbons, avvenuta nel giardino di Villa Lontana nel gennaio del 2018. Avevamo visitato vari musei e gallerie di arte classica e, tornati a Villa Lontana, ci è venuto in mente il lavoro di John Baldessari “I Am Making Art” (1971) in cui l’artista americano posa davanti a una telecamera nel suo studio di LA e ad ogni movimento afferma di essere un’opera d’arte. Chiaramente Baldassarri aveva in mente la scultura classica, e questo lavoro ha aperto la conversazione sull’apparente staticità della scultura in relazione alla performatività del corpo, portando alla costruzione della mostra “Sculptureless Sculpture” con opere di John Baldessari, Elisabetta Benassi, Ketty La Rocca, Mario Merz ed Ad Reinhardt.
Come e perché sono state selezionate determinate opere della Fondazione Santarelli da far dialogare con i video di artisti contemporanei presenti in mostra? Quali sculture sono state selezionate?
(Bonifati) Per la costruzione del percorso e la scelta delle opere ci siamo ispirate a testi presenti in mostra, quali “The Shape of Time”, “Remarks on the History of Things” di George Kubler, “Atlas How to Carry the World on One’s Back?” di Georges Didi-Huberman, e il saggio di Susan Sontag “On Silence” e “The Death of the Author” di Roland Barthes entrambi presenti in Aspen 5 + 6 pubblicato nel 1967/68 sotto la supervisione di Bran O’Doherty. La scelta curatoriale è stata abbastanza intuitiva, si è sviluppata in modo organico con la scelta dei video e per questa prima mostra a Villa Lontana ha portato alla selezione di diversi lavori dalla Fondazione Santarelli in un arco temporale compreso dal VII a.C. al XVIII d.C.. L’idea era di mettere insieme una mostra di scultura senza sculture, in cui gli unici oggetti in mostra erano le opere della Fondazione Santarelli in conversazione con i lavori video, partendo dall’idea che la scultura è movimento. “Sculptureless Sculpture” ha sviluppato e dato voce a quest’idea, guardando al video come ad una serie di immagini in movimento con cui, in relazione alle sculture, si è voluta creare una dinamicità tra due pratiche artistiche apparentemente opposte.
“Son of Niobe” (2013) di Elisabetta Benassi è un lavoro sviluppato dall’artista romana venti anni dopo l’attacco terroristico alla Galleria degli Uffizi. Il lavoro raffigura uno dei figli di Niobe morto due volte, la prima nel mito greco e di nuovo nel 1993 a causa dell’esplosione agli Uffizi. “Appendice Per Una Supplica” (1972) di Ketty La Rocca è stato presentato per la prima volta alla Biennale di Venezia nel 1972, si tratta di un lavoro che gioca con l’idea del frammento, la performatività del corpo e il linguaggio e, proiettato nel garage di Villa Lontana, ha creato un interessante gioco visivo e concettuale con alcuni dei lavori in mostra. “Lumaca” (1970) di Mario Merz era uno dei video parte del progetto di Gerry Schum TV Gallery, parte di un progetto formato da due mostre “Land Art” (1969) e “Identifications” (1970). “Lumaca” fa parte di “Identifications”, un lavoro che vede Mario Merz disegnare una spirale e accanto scrivere i numeri legati alla sequenza matematica di Fibonacci, una riflessione che rimanda alla proporzione, così centrale per lo sviluppo della scultura classica. “Travel Slides” (1952-1967) di Ad Reinhardt è composto invece da una serie di fotografie, tutte scattate dall’artista tra gli anni ’50 e l’anno della sua morte. Le fotografie sono state scattate in varie parti del mondo e raffigurano oggetti e architetture appartenenti alla storia dell’arte occidentale e orientale. Un viaggio attraverso le forme che, visto in relazione agli oggetti in mostra, credo abbia proposto diverse chiavi di lettura: cosi come le slides di Ad Reinhardt, anche le sculture in mostra provengono da varie parti del mondo. Alcune greche, altre romane, alcune etrusche ed altre siriane, si tratta di un viaggio spazio-temporale tra culture e secoli diversi.
Il progetto in collaborazione con Villa Lontana prevede nuovi appuntamenti, a cominciare dal prossimo autunno, ed il coinvolgimento di spazi della Villa sempre nuovi, esterni ed interni. La Fondazione parteciperà anche ai prossimi eventi? Qual è il calendario delle attività previste per quest’anno ed eventualmente il prossimo, avete in previsione un progetto particolare di cui vorrebbe parlarci?
(Bonifati) La prossima mostra sarà inaugurata ad Ottobre e si svolgerà nel giardino rinascimentale di Villa Lontana, usando la metafora dell’artista archeologo e trasformando il giardino in un sito archeologico del presente. La lista degli artisti non è ancora definita, ma ci saranno lavori dagli anni ’70 ad oggi sia di artisti stranieri che italiani. Credo sia molto importante quando si sviluppa un progetto come questo tenere presente la comunità artistica del luogo in cui ci si trova, aprendolo a un dialogo più ampio con opere classiche e lavori di artisti internazionali. Il progetto a Villa Lontana è un’occasione per riscoprire una collezione come quella di Dino ed Ernesta Santarelli in una chiave diversa, e la Fondazione sarà presente anche nelle future iterazioni.  Lo spazio del progetto è legato a Villa Lontana, la sua storia attraverso i secoli e la collezione che la inabita oggi. É come se fosse una casa museo ricostruita negli ultimi dieci anni con le opere della Collezione Santarelli. I luoghi scelti per questo primo progetto sono il garage ed il giardino rinascimentale, ma nel futuro non escludiamo di aprire una stanza della Villa per creare un dialogo più intimo tra antico e contemporaneo.
Può indicarmi le attività in cui la Fondazione si impegna annualmente – penso ad esempio al Premio Zeri ed al sostegno agli studenti tramite borse di studio – e gli investimenti sostenuti in progetti innovativi come la collaborazione con Villa Lontana? Come vengono selezionati i progetti che poi vengono supportati, qual è l’iter previsto per la presentazione dei suddetti?
(Ricci) La Fondazione ha promosso il Premio Federico Zeri, di concerto con la Fondazione Federico Zeri, e nel 2013 il premio è stato assegnato a una giovane studiosa, selezionata da una commissione scientifica tra numerosi candidati. Il premio le è stato conferito in riferimento ad una ricerca storico artistica sulla persistenza dell’Antico e la rappresentazione della scultura nella pittura di natura morta, condotta presso la fototeca Zeri. Inoltre, in seguito ai sismi che hanno colpito la cittadina di Amatrice nel 2016, la Fondazione si è impegnata per essere accanto alla popolazione e ha realizzato il libro “Amatrice, storia, arte e cultura”, curato da Alessandro Viscogliosi, pubblicato nel 2016, con l’intento di ancora poter contemplare la bellezza che ha caratterizzato Amatrice, tra i cento borghi più belli d’Italia. Sulla base degli studi per questo volume è stato condotto un ampio approfondimento scientifico e filologico, mappando dettagliatamente tutta la cittadina al fine di poter rappresentare Amatrice com’era all’inizio del Novecento ed è stato realizzato il plastico 6×4 metri, sostenuto insieme a Intesa Sanpaolo. Il plastico è stato realizzato dalla società Officina Materia e Forma sotto la direzione del professor Alessandro Viscogliosi del Dipartimento di Storia dell’Architettura, Restauro e Conservazione dei Beni Architettonici della Sapienza di Roma. A febbraio del 2018 è stata sottoscritta la collaborazione scientifica tra la Fondazione Dino ed Ernesta Santarelli e il Dipartimento di Storia Disegno e Restauro dell’Architettura – Sapienza Università di Roma e successivamente il protocollo d’intesa con il Comune di Amatrice al fine di valorizzare e condividere il grande lavoro scientifico effettuato e proseguire insieme nelle fasi successive. Il plastico sarà la base per la ricostruzione della cittadina e verrà esposto permanentemente in un edificio in fase di realizzazione nel Parco don Minozzi di Amatrice.
Continuando gli studi siamo lieti di informare che entro l’autunno vedrà la luce il secondo volume su Amatrice, sempre a cura del professor Alessandro Viscogliosi. Tale volume svilupperà, tramite la ricerca storica, lo studio di tutti i prospetti antichi degli edifici rappresentati nel plastico, resi estremamente vicini all’originale novecentesco anche grazie alle campionature degli intonaci.
http://www.ilgiornaledellefondazioni.com/content/storia-di-una-collezione-romana-e-di-connessioni-tra-antico-e-contemporaneo

Un microcosmo di gommapiuma. L’arte sensoriale di Piero Gilardi in mostra all’Accademia di Belle Arti di Carrara

Arte contemporanea
Laddove normalmente proliferano gessi, marmi e sculture classiche di vario genere, da ieri fioriscono distese organiche, frutto di una natura vivace, colorata, morbida. Parliamo dell’Aula Magna dell’Accademia di Belle Arti di Carrara, che ospiterà per tutto il periodo estivo un grande protagonista – specialmente quest’anno, indiscutibilmente il suo anno – del panorama artistico nazionale ed internazionale.
Dopo la grande retrospettiva inaugurata ad aprile al MAXXI di Roma, che approderà anche al Centre Pompidou di Parigi e al Centro Reina Sofia di Madrid, dopo convegni e giornate di studio a cui è stato chiamato a partecipare come relatore insieme ai responsabili del PAV – Padiglione d’Arte Vivente di Torino -, ecco inaugurato un nuovo momento di incontro con Piero Gilardi, papà delle spiagge e dei cieli in poliuretano espanso.
L’Aula Magna dell’Accademia di Belle Arti di Carrara si fa infatti teatro – o meglio serra, giardino – di un approfondimento dedicato ad un tema da sempre caro a Gilardi, ovvero il rapporto tra uomo, cultura e natura. Un confronto incoraggiato dalla presenza di nove lavori prodotti a partire dagli anni Sessanta, due installazioni interattive e sette Tappeti-Natura, opere che rappresentano angoli di natura incontaminata fatti di gommapiuma, un materiale morbido al tatto e in un certo senso anche alla vista. Parliamo della tipologia di lavori più famosi di Gilardi, scorci universalmente riconoscibili nel mondo dell’arte, paesaggi intrisi di una poetica che rimanda alla Pop art ed omaggia il suo mentore, Claes Oldenburg.
L’esposizione a Carrara si serve delle spiagge e dei gabbiani, dei greti di torrenti come dei campi coltivati ed ancora dei boschi innevati, per creare un paesaggio inedito, sospeso tra natura e artificio, che accoglie il visitatore con l’intento di istruirlo ed aprirgli gli occhi. Infatti, scopo ultimo della poetica gilardiana è di riportare nel mondo la giusta dose di attenzione e dedizione nei confronti dell’ambiente, non solo per ammirarne la bellezza e l’eterogeneità, ma anche per responsabilizzarci – finchè siamo in tempo – rispetto ai pericoli dell’industrializzazione e dei cambiamenti climatici dovuti all’inquinamento. Gilardi, classe 1942, si è distinto fin dall’inizio della sua carriera per il suo impegno politico e sociale, sostenuto da una creatività dirompente e dal fascino delle nuove tecnologie interattive. La sua espressività, la sua indipendenza come artista, la piena coscienza delle problematiche relative il disastro ecologico corrente, sono alcuni dei punti di forza ed anche di partenza per approfondire non solo la sua produzione, ma l’evolversi della stessa con il passare del tempo.
Il titolo della mostra, Estetiche dell’Antropocene, porta quindi a riflettere sull’era geologica attuale, nella quale all’essere umano e alla sua attività sono attribuite le cause principali delle modifiche territoriali, strutturali e climatiche.  Siamo in grado di utilizzare quello che abbiamo a disposizione – l’arte, la tecnologia, i mezzi di comunicazione – per svegliarci dal nostro torpore, per agire a difesa della natura e della vita? Come ricorda Gilardi, “L’Arte deve entrare nella vita, ma dato che la vita è alienata, occorre impegnarsi anche a liberare e disalienare la vita.”
http://eastwest.eu/it/cultura/arte-e-architettura/un-microcosmo-di-gommapiuma-l-arte-sensoriale-di-piero-gilardi-in-mostra-all-accademia-di-belle-arti-di-carrara

Straniamento. Seemingly familiar or seemingly unfamiliar. Italia e Corea in dialogo a Le Murate di Firenze

Arte contemporanea, Geopolitica
Si è concluso da una manciata di giorni il Korea Film Fest, appuntamento fisso che da quindici anni mette in collegamento Firenze con la cultura coreana, proponendo un palinsesto ricco di eventi unico nel suo genere nel nostro Belpaese. Obiettivo del Festival, oltre alla collaborazione istituzionale tra i due paesi coinvolti, è la sensibilizzazione del pubblico italiano nei confronti del poliedrico universo culturale coreano, un approfondimento portato avanti attraverso diversi canali di comunicazione,dal grande schermo ed il cinema d’autore alle esposizioni temporanee e convegni dedicati.
Le Murate. Progetti Arte Contemporanea, centro di ricerca e produzione artistica fiorentino, un complesso monumentale originariamente convento di clausura, recuperato nel 2004 e trasformato in edilizia residenziale pubblica, attività commerciali e spazi sociali, ha aderito all’iniziativa del Festival ospitando in residenza sette artisti e due curatrici coreane.
Jiyoung LEEe Kko-kka LEE, due capisaldi della curatela coreana, già impegnate in progetti legati alla Biennale di Venezia del 2016, hanno selezionato per l’evento alcuni nomi importanti del panorama artistico coreano, ancora poco conosciuti nel nostro paese. I sette artisti coinvolti ed ospitati, che hanno dato vita ad un’esposizione di una ventina di opere tra videoinstallazioni, fotografie, dipinti e sculture, sono Chanhyo BAE, Minjeong GUEM, Sungpil HAN, Yiyun KANG, Jongku KIM, Seoungwon WON, Jihye YEOM.
Straniamento, in italiano sinonimo di lontananza e alienazione, è il titolo scelto dalle curatrici per tradurre i sentimenti condivisi contemporaneamente dal pubblico italiano nei confronti dell’arte contemporanea coreana, e dagli artististessi rispetto alle relazioni tra la loro arte e quella di altri paesi. Attraverso l’accettazione di una resistenza culturale che implica un maggior impegno per comprendere e comunicare, il percorso espositivo è stato studiato per affrontare questa distanza ed attenuare il senso di straniamento al termine dell’esperienza di mostra. Si pensi alla serie Existing in Costume di Chan-Hyo BAE, in cui l’artista si immagina negli estranei panni – dettagliati fin nel minimo particolare – di una nobildonna occidentale in varie epoche storiche. Un esercizio di stile di alto livello, utile ad esorcizzare il senso di straniamento geografico provato dall’artista durante il periodo trascorso a Londra, portandolo all’estremo.
Sungpil HAN s’interroga invece sulla complessità delle differenti culture proponendo attraverso la fotografia – di grandi dimensioni, paragonabile alle riproduzioni su edifici in ristrutturazione, a mascheramento di un cantiere – nuove interpretazioni del nostro quotidiano, elementi architettonici totalmente estranei al contesto eppure evocativi, simbolo di una identità culturale precisa.
Yiyun KANG è famosa per i suoi progetti di video mapping, installazioni che prevedono proiezioni site specific attraverso cui è possibile esplorare lo sviluppo di ambienti relazionali, in questo caso una tela bianca che si modifica sotto i movimenti dell’artista.Si tratta di una manipolazione tecnologica e illusionistica alla quale è associata una sequenza di suoni che ricordano il bussare dei prigionieri una volta rinchiusi nel vecchio complesso delle Murate.
Per arrivare infine a Jongku KIM, scultore che lavora macinando con fatica il ferro, fino a ridurlo in polvere, trasformandolo da materiale forte e solido in qualcosa di leggero e imprevedibile. Usando forme calligrafiche, egli applica la polvere di ferro sopra una tela, su cui stende uno strato di colla poliuretanica per fermarne la volatilità in maniera più o meno calcolata. Infatti, una volta sollevate le tele, la gravità fa cadere l’eccesso e lascia una serie di parole scritte in coreano ma di difficile comprensione.
Un’esposizione che equivale ad un’esplorazione attraverso il linguaggio visuale di sentimenti condivisi e valori comuni, espressi in maniera differente ma non meno incisiva rispetto all’arte occidentale.
http://eastwest.eu/it/cultura/arte-e-architettura/straniamento-seemingly-familiar-or-seemingly-unfamiliar-italia-e-corea-in-dialogo-a-le-murate-di-firenze

Mondi agli antipodi, percorsi paralleli e in divenire. Michelangelo Pistoletto al Museo Nazionale di Belle Arti dell’Avana, Cuba

Arte contemporanea
“La conseguenza più straordinaria della rivoluzione cubana è l’incredibile coscienza rivoluzionaria che si è sviluppata nel popolo”. Se anche Fidel Castro non pensava al fronte artistico e culturale della sua amata e controversa Cuba, certo è che gli ultimi anni in particolare hanno visto un’apertura eccezionale dell’isola nei confronti degli artisti internazionali.
Abbiamo già parlato delle iniziative della Galleria Continua all’Avana, in questi mesi coinvolta direttamente ed attivamente con il Museo Nazionale di Belle Arti della capitale e la Cittadellarte – Fondazione Pistoletto di Biella nell’allestimento della prima mostra personale a Cuba dell’artista italiano Michelangelo Pistoletto. Un’esposizione che ha segnato un momento importante, la ciliegina su una torta che è frutto di lunghe ispirazioni e contaminazioni più o meno consapevoli, coincidenze e fascinazioni disarmanti, il tutto in perfetto stile cubano.
Pistoletto, biellese di nascita e per passione dal 1933, è cresciuto vestendo i panni di figlio d’arte. Apprendista del padre -pittore e restauratore – iniziò a lavorare con lui quando era ancora un adolescente, per poi frequentare la scuola grafica pubblicitaria di Armando Testa, e finendo – fin dai primi anni Cinquanta – per approfondire, studiare e sperimentare nuove angolazioni e nuove rese ad effetto per ritrarre se stesso. Una ricerca quasi esclusiva quella di Pistoletto sull’autoritratto, una fase di sperimentazione elaborata e prolungata nel tempo che portò alla realizzazione di molte opere a dimensione reale, con rese cromatiche differenti, man mano più neutre e riflettenti. Nello stesso periodo, dall’altra parte del mondo, Fidel Castro portava a compimento la sua impresa Rivoluzionaria, conquistando il potere e cambiando per sempre la geografia politica e culturale del popolo cubano.
Per combinazione, sarà nel 1962 che la ricerca di Pistoletto approderà alla famosa serie dei Quadri specchianti, opere con una componente fotografica – stampata su carta velina – applicata su una lastra di acciaio inox lucidata a specchio. La sua rivoluzione? Un’opera in cui la presenza dello spettatore è reale e percepita nello specchio, così come la reale misura del tempo. Nel frattempo, Cuba si ritrovò in piena crisi missilistica quando nell’ottobre del 1962 scoppiò la pesante crisi diplomatica tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, prologo della quale fu una ricognizione svolta da due aerei spia statunitensi sopra lo spazio aereo cubano. Nello stesso momento in cui Cuba prese le distanze dagli Stati Uniti, i Quadri specchianti portarono Pistoletto a partecipare alle più importanti manifestazioni artistiche internazionali dedicate alla Pop Art e al Nouveau Realisme, sancendo la sua ascesa nell’olimpo degli artisti contemporanei.
Nel 2015, un periodo di permanenza di Pistoletto a Cuba – legato alla partecipazione dell’artista alla XII Biennale dell’Avana – ha ispirato un nuovo ciclo di diciotto Quadri specchianti interamente dedicati alla vita quotidiana cubana. Le sue famose superfici riflettenti hanno accolto infatti le sagome di persone fotografate per strada o in edifici pubblici, indaffarate in varie e caratteristiche attività quotidiane. “Questo paese è un laboratorio nel quale si parte da un livello culturalmente elevato. [..] L’arte deve lavorar per far funzionare la metamorfosi e portarla verso un nuovo mondo possibile.”.
Da questa serie e dalle sue riflessioni è scaturita la volontà di un’esposizione dedicata, organizzata all’interno del Museo Nazionale di Belle Arti, un percorso che offre un’ampia panoramica dell’intera carriera artistica di Pistoletto, dai suoi esordi fino ai giorni nostri. La selezione di opere esposte include lavori storici e inediti, ed è stata inaugurata da una performance dell’artista, il quale ha portato all’Avana la sua Walking Sculpure, una reinterpretazione della sua celebre Sfera di giornali, realizzata e fatta rotolare nel 1967 per le strade di Torino. La nuova scultura è stata portata in giro per le strade dell’Avana, perché, come dice Pistoletto “Rappresenta una speranza e un’opportunità [..] Se si lancia una sfera tra le persone, reagiranno alla sfera e inizieranno a giocare con essa, cercando di spingerla verso un obiettivo, cogliendo l’occasione. In questo caso, la palla è anche una grande metafora degli incontri della vita e delle interazioni”.
http://eastwest.eu/it/cultura/michelangelo-pistoletto-museo-nazionale-belle-arti-avana-cuba

Conservare l’arte contemporanea. Project Marta – Monitoring Art Archive

Arte contemporanea, Interviste, Project Marta monitoring art archive
Il tema della conservazione preventiva e della manutenzione delle opere d’arte, soprattutto quelle moderne e contemporanee, è da diversi anni qualcosa su cui si confrontano vivacemente tecnici ed esperti, uniti nella ricerca di punti di contatto e nella condivisione di esperienze che siano da modello per un futuro sempre più variegato in termini di opere sperimentali e materiali innovativi.
Come ormai è risaputo, l’integrità del patrimonio contemporaneo può essere minata da molteplici fattori, dalla tendenza a far viaggiare sempre più l’arte contemporanea, spesso senza le necessarie precauzioni o l’imballaggio adatto, all’allestimento in condizioni ambientali inadeguate, sia in spazi pubblici che privati; dalla movimentazione inappropriata, per alcune opere d’arte particolarmente rischiosa, alle metodologie di manutenzione improvvisate. Molti problemi sono inoltre legati alla natura delle opere stesse, realizzate utilizzando materiali non usuali e che non hanno una consolidata tradizione di studi a livello conservativo come nel caso dell’arte antica.
Project Marta – Monitoring Art Archive nasce dallo studio di questo contesto, nell’ottica di offrire un punto di riferimento ed un servizio efficaci per la tutela dell’arte contemporanea, con l’obiettivo di intervenire nel colmare alcune importanti lacune del sistema conservativo.
Messo a punto con il supporto dell’Associazione You and Partners, attenta alla manutenzione e valorizzazione del patrimonio culturale ed artistico, Project Marta – Monitoring Art Archive vede la lucea partire da questo week end, in occasione della 41° edizione di Artefiera, a Bologna, dopo quasi dieci anni di esperienza a contatto con la produzione artistica contemporanea.
Intende farlo innanzitutto attraverso la condivisione di informazioni pratiche – tecniche e gestionali – da approfondire sul sito internet, dove trova casa un archivio consultabile per sezioni – Artisti, Opere, Gallerie e Materiali – la cui banca dati viaggia in parallelo al servizio tecnico dedicato da Project Marta. Quest’ultimo si basa sulla produzione di una scheda tecnica molto approfondita, frutto di una prima ricerca sull’opera in esame, un successivo confronto diretto con l’artista che l’ha realizzata – interpellato tramite un’intervista dedicata – e per finire di un approfondimento con esperti in ambito di conservazione, trasporto e tutela. L’unione di queste tre fasi consente una raccolta di informazioni tale da garantire una più agevole gestione e la tutela dell’opera, poiché contiene al suo interno tutte le specifiche utili agli operatori del sistema, dal trasportatore all’allestitore al restauratore.
Project Marta è pensato in particolar modo per i collezionisti di ogni calibro e per gli artisti, e punta molto sull’accessibilità anche economica delle schede, proprio perchè si intende offrire a tutti la possibilità di accedere ad una tipologia di archiviazione e cura delle proprie opere puntuale e professionale, come fino ad oggi è stato possibile forse solo a grandi Fondazioni e realtà museali.
Dal 29 gennaio 2017, con il lancio del sito di Project Marta – www.projectmarta.com – il servizio sarà dunque ufficializzato e aperto a chiunque voglia far realizzare una scheda tecnica o collaborare con noi, perché tutti gli appassionati d’arte e i loro sappiano che è possibile consegnare o acquisire un’opera in maggiore sicurezza.

L’Arte è di tutti. Gilbert & George al Museum of Old and New Art di Hobart, Tasmania

Arte contemporanea, East magazine, Mostre
C’è una prima volta per tutto, a volte più eccezionale di quanto si possa immaginare. Nel caso di una delle coppie più famose dell’arte contemporanea, i leggendari Gilbert & George, l’ultima “prima volta” è stata in Australia, dove è stata organizzata una delle loro più grandi e complete retrospettive. Infatti, i curatori della mostra –  Olivier Varenne e Nicole Durling, affiancati dagli stessi Gilbert & George – hanno pianificato una personale che ha previsto l’esposizione di oltre cento opere di varie dimensioni, selezionate partendo da una produzione che conta ormai cinque decenni di attività, dai primi lavori degli anni Settanta ai più recenti datati 2014.
Gilbert & George, all’anagrafe Gilbert Prousch (1943) e George Passmore (1942), si incontrarono alla Saint Martin’s School of Art di Londra nel 1967, e dall’anno seguente la loro collaborazione professionale si fuse in una condivisione dello spazio privato, culminata nel trasferimento di casa e studio nell’allora malfamato quartiere di Spitalfields. Non fu una scelta dettata dal caso o dalla necessità, ma dalla volontà di opporsi fin da subito alle tradizioni legate alla produzione artistica in senso lato, da quella convenzionale alle correnti più recenti, motivo per cui scelsero di vivere la propria vita, i propri ambienti e le proprie persone come una sorta di grande e prolungata performance. Cominciarono così nei panni di “sculture cantanti”, quando, dipingendosi con una vernice metallica e vestendosi con completi grigi da impiegati middle class – una sorta di divisa che ancora li contraddistingue – salivano su un piedistallo e cantavano una canzone popolare inglese.  In seguito, consolidarono la propria fama attraverso la produzione di composizioni fotografiche su larga scala, caratterizzate da colori psicadelici e montate in modo da ricordare una vetrata gotica. I protagonisti della scena sono sempre Gilbert & George, attorniati da elementi simbolici vagamente riconoscibili, dissacranti e provocatori. Benchè siano sempre rappresentati o presenti all’interno delle loro creazioni, è importante notare che il duo non ha mai firmato un’opera individualmente, ma sempre e solo come Gilbert & George, a sottolineare non solo un rifiuto della distinzione dei ruoli ma anche una profonda attenzione nei confronti della definizione di identità. La scelta di utilizzare da subito una firma comune fu particolarmente significativa all’inizio della loro carriera, perché sancì l’intenzione comune in un percorso artistico che rifiutava l’individualizzazione e rafforzava al contempo il loro motto “l’Arte è di tutti“.
Appare chiaro dunque come l’obiettivo ultimo nel loro lavoro sia sempre stato quello di unificare arte e vita di tutti i giorni, producendo qualcosa che richiamasse ogni volta l’attenzione del maggior numero di persone possibile, analizzando le numerose sfaccettature dell’essere umano. Per questo l’allestimento delle mostre è un elemento fondamentale della loro visione, spesso sovradimensionato, scomodo ma attraente, come nel caso di questa prima esposizione australiana, prima e forse ultima volta in cui verranno presentate un centinaio delle loro fotografie tutte in un’unica location. Un’occasione unica per osservare come ogni tipo di tematica affrontata dal duo – comprendente ossessioni quali sesso, razza, religione, politica, soldi, morte –  enfatizzi il rapporto tra arte e vita come asse portante della loro ricerca artistica. “Essere sculture viventi è la nostra linfa, il nostro destino, la nostra avventura, il nostro disastro, nostra vita e nostra luce“.
http://www.eastonline.eu/it/cultura/arte-e-architettura/l-arte-e-di-tutti-gilbert-george-al-museum-of-old-and-new-art-di-hobart-tasmania

I luoghi della cultura e della memoria. Piero Pizzi Cannella alla Fondazione Pastificio Cerere, Roma

Architettura, Arte contemporanea, East magazine, Mostre
Tutti i luoghi hanno una propria memoria, sono custodi di avvenimenti che insieme raccontano una storia e contribuiscono a delineare personaggi e situazioni che a loro volta hanno influenzato il corso di altri eventi. Nel caso del Pastificio Cerere di Roma – dedicato alla dea delle messi, costruito nell’Italia dei primi del Novecento per ospitare una delle prime semolerie-pastifici industrializzati del Paese – si tratta di una storia lunga un secolo, condita di tanti ingredienti apparentemente slegati tra loro, il cui sapore è eccezionale.
D’altronde, chi poteva immaginare che un luogo così isolato dal centro culturale della capitale, con un progetto iniziale così lontano dall’essere una fabbrica di cultura, potesse oggi essere conosciuto per la più alta concentrazione di esponenti delle arti visive dell’Europa Meridionale? Infatti, dimessa la produzione di pasta nel 1960, la fabbrica è stata trasformata e ripopolata in pochi anni dagli artisti del Gruppo di San Lorenzo, pittori e scultori che hanno installato i propri atelier nei locali dell’ex Pastificio Cerere. Il momento cruciale di transizione da industria a luogo di produzione e diffusione dell’arte contemporanea fu sancito da Achille Bonito Oliva nell’estate del 1984, quando il critico aprì le porte del Pastificio alla mostra Ateliers, che altro non fu se non l’apertura fisica degli spazi dove abitavano e lavoravano principalmente gli artisti Nunzio, Bruno Ceccobelli, Gianni Dessì, Giuseppe Gallo, Marco Tirelli e Piero Pizzi Cannella.
Proprio quest’ultimo, chiamato ad omaggiare i dieci anni di attività della Fondazione Pastificio Cerere con gli altri cinque colleghi fondatori del Gruppo di San Lorenzo, ha risposto all’invito organizzandovi la propria personale da titolo Interno via degli Ausoni. Un riconoscimento nei confronti del luogo e del suo ruolo di fucina per la formazione di nuove generazioni di artisti, ma anche delle solide fondamenta gettate dai precursori del progetto artistico, i quali hanno risposto come Pizzi all’invito ad esporre, progettando ognuno una mostra che tracciasse i rispettivi percorsi e sottolineasse il proprio ruolo all’interno della storia del Pastificio. Piero Pizzi Cannella ad esempio, è nato nel 1955 nei pressi della capitale e fin da bambino si confronta con la pittura, proseguendo, all’Accademia di Roma, con la manipolazione dei materiali. Risale agli anni Settanta il suo trasferimento all’ex Pastificio ed è nel 1978 che presenta la prima personale ed anche la sua prima scultura, benchè sia solito dire “Non nasco come scultore. La scultura è un mio amore segreto, che non merito.” Attraverso la mostra Interno via degli Ausoni l’artista sceglie di ripercorrere momenti cardine della sua vita e della sua carriera, trentacinque anni di percorsi intrecciati a questi luoghi che egli condivide con affetto con il pubblico. Una mostra intima, giocata sulla memoria e la sospensione, scandita da opere che paiono affiorare da un ricordo, dalle profondità della mente.
La mostra si compone di una tela di grandi dimensioni, un’anfora in bronzo della serie La Fontana Ferma, installazione fortemente legata all’ex Pastificio, e da una serie di disegni su carta, presentati insieme per la prima volta. Dice Pizzi Cannella dell’ex Pastificio “Un esempio di come sia possibile trasformare l’idea di arte, un’idea legata al canone estetico, al bello, e unirla ad una vita in armonia con gli amici, che per un certo momento qui è stata possibile. C’era l’atmosfera giusta per stare insieme, c’erano non solo artisti ma anche scenografi, compagnie teatrali. È stata una crescita fortunosa.”
http://www.eastonline.eu/it/cultura/arte-e-architettura/i-luoghi-della-cultura-e-della-memoria-piero-pizzi-cannella-alla-fondazione-pastificio-cerere-a-roma

Un occhio al cielo ed uno alla terra. Ghirri, Friedman e Decavèle alla Fondazione Querini Stampalia di Venezia

Architettura, Arte contemporanea, Mostre
Pensate al potenziale di un incontro creativo tra un fotografo italiano, un architetto e designer polacco ed uno scultore francese. Immaginate tre punti di vista molto diversi in un momento rivoluzionario come quello del secondo dopoguerra, periodo di grandi sperimentazioni, spesso condivise dai tanti protagonisti della scena artistica di quegli anni. Andando nel dettaglio, immaginate come – quando ad incontrarsi furono le idee di Yona Friedman e Jean Baptiste Decavèle, oppure di Luigi Ghirri – la percezione ordinaria di opere e paesaggi attraverso una cornice oppure un obiettivo sia stata spazzata via, in una mescolanza di genere che ha messo tutto sullo stesso piano, dal contenitore allo spazio aperto, alla ricerca di una nuova poetica e di una nuova identità. La mostra Paesaggi d’aria è stata pensata proprio per evidenziare i punti di incontro tra i tre artisti visionari, accomunati nella ricerca di nuove prospettive che li mettessero in connessione con il paesaggio, in questo caso specifico quello italiano.
Luigi Ghirri nel 1969 fu letteralmente folgorato dall’immagine della Terra fotografata dalla Luna, la prima fotografia del mondo, l’immagine che contenne idealmente per la prima volta tutte le immagini esistenti. A partire da quel momento iniziò la sua ricerca, quella che lui stesso ha definito “la grande avventura dello sguardo e del pensiero. Il viaggio nell’inestricabile geroglifico del reale attraverso carte e mappe che contemporaneamente sono fotografie.” L’interesse per il tema del paesaggio crebbe nel corso degli anni Settanta insieme alla sua manualità e alla libertà del fare, un interesse concentrato sempre più sui luoghi meno turistici e quindi meno noti. Dagli anni Ottanta in avanti Ghirri strinse rapporti duraturi con architetti, urbanisti, filosofi, con cui condivise l’esigenza di creare una nuova iconografia del paesaggio italiano, sempre più attenta agli spazi del contemporaneo, un’attenzione da cui prese forma la grande serie che intitolò Paesaggio Italiano, iniziata nel 1980 e terminata con la sua morte improvvisa, nel 1992, a causa di un infarto.
Yona Friedman e Jean Baptiste Decavèle sono invece un architetto e uno scultore professionisti, da anni uniti nella condivisione di progetti riassumibili in una costellazione di invenzioni architettoniche, creazioni fotografiche e video che hanno dato vita ad un universo utopico calato in contesti reali. L’ultimo lavoro insieme è stato intitolato Vigna Museum, ed è parte fondamentale della mostra Paesaggi d’aria, all’interno della quale è illustrato per mezzo di un video documentario. Si tratta anche in questo caso di un’architettura visionaria che il duo ha studiato e realizzato in onore della prestigiosa casa vinicola italiana e del suo storico fondatore, Livio Felluga. In occasione del suo centenario, l’anno scorso l’azienda ha chiesto a Friedman e Decavèle di realizzare qualcosa che testimoniasse il rispetto e l’amore di Felluga per quei luoghi, coinvolti profondamente nel processo di creazione del suo vino. Ispirati da questa unione e dallo sguardo non convenzionale di Ghirri, il duo ha vissuto personalmente le colline friulane ed in seguito all’esperienza ha scelto di realizzare una serie di forme modulari totalmente aperte al paesaggio circostante. Il progetto messo in campo si basa sulla volontà di fusione con il contesto ambientale, le strutture sono state affiancate da cento piante di vite in modo che negli anni queste si arrampichino lungo i moduli fino a fondere le due identità, il naturale e l’elemento architettonico. Così come oggi le strutture incoraggiano ciascun visitatore a guardare attraverso lo spazio museale ciò che li circonda, a sentirsi pienamente inseriti nello spazio della vigna, così in futuro saranno parte del paesaggio che oggi contempliamo.
Facendo un passo indietro, la mostra Paesaggi d’aria – organizzata dalla Fondazione Querini Stampalia di Venezia in collaborazione con il neonato Fondo Ghirri, che trova spazio nella Fondazione stessa – vuole celebrare il parallelismo di sguardi di Ghirri e di Friedman e Decavèle. Il percorso espositivo è stato messo a punto da Chiara Bertola e Giuliano Sergio in collaborazione con Livio Felluga e RAM radioartemobile, con il fine di proporre una riflessione sul paesaggio italiano, punto focale per tutti gli attori di questa mostra. Un paesaggio amato, ricercato, riscoperto e modellato in modo tale da proporne un’immagine altra rispetto a quella tradizionale, ma sempre ugualmente potente e fedele a se stessa.
http://www.eastonline.eu/it/cultura/arte-e-architettura/un-occhio-al-cielo-ed-uno-alla-terra-ghirri-friedman-e-decavele-alla-fondazione-querini-stampalia-di-venezia

Uomini che fotografano lo sguardo delle donne. Steve McCurry in mostra al Museo di San Domenico, Forlì

Arte contemporanea, East magazine, Mostre
“Passo un sacco di tempo a guardare facce e facce e le facce sembrano raccontarmi una storia. Quando su un volto è scavata qualcosa dell’esperienza di vita, so che la foto che sto scattando rappresenta molto di più del semplice momento. So che qui c’è una storia.”  Steve McCurry spiega con semplici parole quella che è la ricerca di una vita, parte della quale è allestita negli spazi carichi di storia del San Domenico di Forlì, un complesso risalente al XIII secolo che comprende una chiesa e due chiostri, uno spazio protetto e isolato dal mondo. Un’esposizione realizzata da Biba Giacchetti insieme al fotografo, con cui ha scelto oltre 180 scatti sviluppati in diversi formati per raccontare com’è cambiato il suo sguardo osservando– in oltre trent’anni di carriera – il feminino in ogni angolo della Terra, da sempre e per sempre culla della vita ed universo a sé stante.
Steve McCurry, nato nel 1950 a Philadelphia, è un fotoreporter americano tra i più famosi al mondo, più o meno da quando catturò lo sguardo acceso e accigliato di una ragazza afgana in uno scatto poco dopo pubblicato in copertina sul National Geographic Magazine del giugno 1985. Si tratta della più nota uscita della rivista, di una fotografia che una volta vista non si dimentica, di un ritratto che per questi motivi è passato alla storia e ha consacrato Steve come una delle voci più autorevoli della fotografia contemporanea. McCurry ha l’indiscutibile pregio di saper combinare il fascino della luce e l’uso del colore – sempre accesi ed intensi, mai vinti dalla tragicità del contesto – alla percezione della tensione e dell’asprezza di una vita vissuta ai confini di tutti e sei i continenti, fondendo il proprio sguardo con quello di chi abita un tempo uguale al nostro ma in uno spazio totalmente differente. Le sue immagini sono immortali per la sua capacità di entrare in contatto con i soggetti ritratti, che siano Mujahidin oppure ragazzine vietnamite, che siano tribù sconosciute a noi occidentali oppure grandi nomi del nostro tempo, come il leader politico birmano Aung San Suu Kyi. I suoi lavori raccontano – attraverso singoli ed epici individui – lo strazio di popoli in guerra, tradiscono la malinconia per le culture che stanno scomparendo, la fierezza di tradizioni antiche e monitorano la novità e la vivacità del progresso contemporaneo, in tutte le sue sfaccettature.
La mostra vuole offrire la possibilità di un viaggio attraverso questo nostro tempo, avanzando tra donne di razze, culture, religioni ed età differenti, simboli e culla di ogni civiltà terrena, dispensatrici di pace e protezione, testimoni di vette ed abissi come le guerre, spesso ritratte a margine delle fotografie di McCurry. Mai il soggetto principale, ma spesso inevitabile sfondo e contesto. Una mostra che ripercorre per immagini la condizione della donna nel mondo, dai burqa dell’Afganistan alle spose bambine dell’India, fino all’incontro finale con Sharbat Gula, la giovane afgana da cui questo viaggio è iniziato.
Come dice la curatrice della mostra, Biba Giacchetti “Icons and Women è una retrospettiva che asserisce i principi della dignità e del rispetto verso qualunque esponente del genere umano e più in particolare nei confronti dell’universo femminile qualunque sia la latitudine, la razza e la condizione sociale. Valori non negoziabili, da affermare con determinazione, come ci insegnano gli sguardi colti dall’inconfondibile genio di Steve McCurry.”
http://www.eastonline.eu/it/cultura/arte-e-architettura/uomini-che-fotografano-lo-sguardo-delle-donne-steve-mccurry-in-mostra-al-museo-di-san-domenico-forli