IL TESSUTO COME ARTE

Il Giornale delle Fondazioni
Da domenica 1 ottobre al 7 gennaio 2018,  le sale di Palazzo Te a Mantova presentano la mostra Il tessuto come arte: Antonio Ratti, imprenditore e mecenate, un omaggio all’industriale comasco che ha fondato un impero tessile famoso a livello internazionale, una realtà in cui impresa e arte sono sempre state strettamente intrecciate e proseguono con l’omonima fondazione. La vita imprendioriale di Ratti è definita da Stefano Baia Curioni, Presidente di Palazzo Te “un’esperienza capace di rilanciare un modo contemporaneo  dell’umanesimo  di fare impresa e di dettare le linee per un successo di rara intensità”.
Mantova. Palazzo Te offre una mostra suggestiva su un personaggio carismatico. Il tessuto come arte: Antonio Ratti, imprenditore e mecenate è un omaggio all’industriale comasco che ha fondato un impero tessile famoso a livello internazionale, una realtà in cui impresa e arte sono sempre state strettamente intrecciate e proseguono con l’omonima fondazione.

La mostra, promossa dal Comune di Mantova, dal Centro Internazionale d’Arte e di Cultura di Palazzo Te e dal Museo Civico di Palazzo Te, è stata realizzata in collaborazione con la Fondazione Antonio Ratti e curata dalla figlia Annie, insieme a Lorenzo Benedetti e Maddalena Terragni.

Il percorso è stato studiato nei minimi particolari per restituire il ritratto di un personaggio  che ha fatto dell’amore per il disegno ed i tessuti – la seta in particolare – una forma d’arte e di sperimentazione, un punto di partenza che l’ha portato a investire in innovazione e tecnologia, in promozione culturale e risorse umane.
Ne abbiamo parlato con il professor Stefano Baia Curoni, presidente del Centro Internazionale d’Arte e di Cultura di Palazzo Te.  «Esistono casi in cui la dimensione del rapporto delle imprese con l’arte è più etica che estetica.  Ratti appartiene ad uno di questi casi preziosi. La cura e l’attenzione per le cose ed i progetti hanno evidenziato nell’impresa Ratti una dimensione poetica che a tutti gli effetti si è rivelata una marcia in più rispetto a tante altre realtà imprenditoriali. Questa mostra raccoglie la sfida di provare a raccontare come l’amore e l’attenzione, l’interesse e il confronto possano legare e far crescere arte e impresa.»

Una linea comportamentale, quella di Ratti, che lo ha portato a collaborare con grandi istituzioni culturali quali il Guggenheim, il Metropolitan Museum of Art di New York, Palazzo Grassi di Venezia, Palazzo Reale e il Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano. Una storia da raccontare anche perchè, come precisa Baia Curioni «è una storia esemplare, in cui la cultura del fare industriale si è congiunta ad una profonda passione per l’arte, creando le condizioni per un’esperienza capace di rilanciare un modo contemporaneo dell’umanesimo  di fare impresa e di dettare le linee per un successo commerciale di rara intensità».

L’esposizione racconta – in un dialogo studiato con le sale di Palazzo Te e con gli spazi delle Fruttiere – gli inizi della carriera di Ratti, quando nel 1945 fondò la Tessitura Serica Antonio Ratti per la lavorazione di cravatte e foulard in seta, fino alla fondazione del Gruppo Ratti, uno dei produttori di punta di tessuti ad alto contenuto tecnologico e creativo.
Il percorso è utile ad inquadrare la storia del fondatore e della sua azienda, ma illustra anche il processo di lavorazione industriale che porta al prodotto finito, dalla sperimentazione alla tradizione.

Seguendo il filo della mostra, si approda alle origini dell’omonima Fondazione, la quale venne fondata nel 1985, con l’intento di dare vita ad un centro in cui promuovere da un lato la ricerca culturale e storica nell’ambito del tessile, e dall’altro sostenere i giovani talenti in ambito artistico. Ecco come l’arte contemporanea è presente in mostra e nella storia dei Ratti, non solo grazie a Antonio ma anche e soprattutto per merito del lavoro della figlia Annie, artista e promotrice di numerose iniziative brillanti, la più famosa delle quali da oltre un ventennio promuove il lavoro congiunto di artisti affermati ed emergenti, coinvolgendoli nell’annuale workshop CSAV-Artists Research Laboratory. Si tratta di un momento di confronto della durata di un mese che si svolge a Como, un’occasione in cui artisti di fama internazionale – tra cui possiamo annoverare John Armleder, Julia Brown, Hans Haacke, Mario Garcia Torres, Renée Green, Joan Jonas, Giulio Paolini, Diego Perrone e Gerhard Richter – insegnano e producono alcuni giovani selezionati.
«Antonio era interessato al contemporaneo, ma restava più concentrato sulla costruzione – in parallelo – di due altre grandi collezioni: una strettamente legata alla produzione della sua azienda, l’altra dedita invece all’acquisizione di archivi che spaziavano da campionari di tessuti copti e veneziani, fino alle cravatte da donna seicentesche. Questo è stato un aspetto complesso ed importante nella pianificazione della mostra, siamo riusciti a rendere “raggiungibile” e fruibile una realtà complessa come l’Archivio dell’azienda Ratti, una realtà che conta circa 200 metri lineari per 60 metri di tessuti di ogni tipo. Abbiamo deciso di mostrarli al pubblico, farglieli toccare, rivestendo i manichini che guidano le persone attraverso il percorso espositivo», considera Annie Ratti.

Non deve stupire quindi il motivo per cui negli anni Novanta Antonio Ratti decise di finanziare la creazione di un centro per la conservazione, il restauro e la catalogazione delle collezioni tessili di proprietà del Metropolitan Museum of Art di New York, precedentemente ospitate presso i singoli dipartimenti del Museo stesso. Nacque così l’Antonio Ratti Textile Center al Metropolitan Museum of Art, una delle strutture più attrezzate per lo studio e la conservazione dei tessili, di cui un approfondimento in mostra legato al ciclo di conferenze dedicate alle attività di Ratti «Direttamente dal Metropolitan verrà un esperto a presentare, in una giornata dedicata nel nostro Museo, la storia del Textile Center. Quest’ultimo è un laboratorio fondamentale perché in ogni dipartimento e collezione del Metropolitan è presente una forte componente tessile, che riguarda le tradizioni degli atzechi come degli indiani d’America, dunque la buona conservazione di questi manufatti è di vitale importanza.
Ratti, che dal canto suo ha fatto crescere due importanti collezioni tessili – una sorta di parallelo privato e nazionale del Metropolitan come varietà e qualità – aveva chiara la necessità di un centro di ricerca del genere, e i rapporti tra le parti sono sempre stati sistematici e molto stretti.»

Una mostra che rappresenta certamente una grande sfida «Un’occasione per testimoniare che la dimensione etica del fare conta tanto quanto il capitale, che questo genere di modello è possibile, è una realtà cui si può aspirare», afferma Baia Curioni.

http://www.ilgiornaledellefondazioni.com/content/il-tessuto-come-arte
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CRONACA DI UN DISASTRO SCAMPATO. IL MAGA RICORDA L’INCENDIO DI 4 ANNI FA E IL RISCHIO DI UNA COLLEZIONE IN FUMO

Il Giornale delle Fondazioni
Il 14 febbraio di quattro anni fa il Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Gallarate – più famoso al pubblico come il MaGa – è stato gravemente danneggiato da un incendio divampato sul tetto dell’edificio proprio mentre erano in corso alcuni lavori di manutenzione. Un incidente in seguito ricollegato all’utilizzo improprio di una fiamma ossidrica da parte di due operai dell’impresa edile, impiegata per sciogliere il ghiaccio sul tetto senza tenere conto del rivestimento – una guaina infiammabile – a causa del quale l’incendio si è propagato in brevissimo tempo ed ha bruciato per diverse ore.
Fortunatamente l’incidente non ha provocato feriti tra lo staff della Fondazione Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea Silvio Zanella, dal 2009 responsabile del MaGa e delle sue collezioni, né si sono perdute opere della suddetta a causa delle fiamme, anche grazie all’intervento tempestivo dei vigili del fuoco e dei custodi del museo. La dottoressa Giulia Formenti, conservatrice responsabile delle collezioni, ricorda quei momenti con precisione «Sono stati i vigili del fuoco ad evacuare le opere dalle sale espositive, sia il nucleo della collezione permanente sia quelle in prestito per l’esposizione temporanea degli artisti Omar Galliani e Alessandro Busci. In quel momento erano presenti diverse opere esposte al primo piano e al secondo piano del museo, ovvero quello più vicino al tetto e dunque più a rischio.»
Durante l’arco di tutto quel lungo pomeriggio e fino a sera non solo i vigili del fuoco, ma anche il personale del MaGa ed alcuni volontari hanno lavorato in parallelo per spegnere l’incendio e per mettere in sicurezza le opere, a cominciare dunque da quelle esposte all’ultimo piano del museo e poi via via le altre allocate in zone più sicure dell’edificio. «Si è formata una sorta di catena umana sulla scala antincendio: i vigili del fuoco hanno consegnato a noi del personale le opere da mettere in salvo, che a nostra volta le abbiamo trasportate all’esterno del museo ed in seguito, dato il numero consistente, abbiamo iniziato a ricoverarle nei depositi organizzati negli spazi della vecchia Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Gallarate, già dotata di sistemi d’allarme.» Una staffetta straordinaria, organizzata per portare in salvo le opere prima che non solo le fiamme, ma anche l’acqua, il fumo e il calore potessero provocare danni irreparabili alla collezione del MaGa, famosa per i capolavori di artisti nazionali realizzati tra gli anni Venti e gli anni Cinquanta, per le declinazioni della pittura informale e le ricerche spazialiste, e per gli sviluppi dell’arte dagli anni Settanta ai giorni nostri. Molti i nomi prestigiosi in collezione, da Giorgio Morandi, Carlo Carrà, Mario Sironi e Renato Guttuso, ai contemporanei Loris Cecchini, Adrian Paci, Alis/ Filliol, Diego Marcon, Riccardo Arena, Luigi Presicce.
A livello logistico, l’impegno del personale sul momento è stato quello di verificare i numeri di inventario delle opere, per essere certi di aver messo in salvo tutti i lavori esposti prima di caricarli sulle proprie automobili per portarli in deposito. «Abbiamo portato in salvo tutto ciò che era possibile movimentare in una situazione di emergenza, ad eccezione di una scultura in cemento armato diVittorio Tavernari – Donna che si spoglia, 1965 – e di alcune opere collocate all’interno dei pannelli estraibili incassati a muro, che i vigili del fuoco non avevano visto».
La dottoressa Formenti e il personale del museo si sono quindi messi al lavoro a cominciare dal giorno successivo l’incendio per catalogare e verificare le condizioni conservative delle opere «Il lavoro di verifica ha richiesto tempo e la partecipazione della Soprintendenza, oltre che di restauratori specializzati o di fiducia per conto di alcuni artisti. In accordo con le parti ci siamo affidati al Centro di restauro di Paola Zanolini e Ida Ravenna di Milano, con cui abbiamo concordato quattro fasi di restauro, per un totale di quarantanove opere su cui intervenire».
Se si considera che solo alcuni pezzi della vasta raccolta erano organizzati in mostra permanente al MaGa, e che la totalità della collezione conta in realtà oltre 6.000 opere tra quelle esposte in Museo e quelle conservate nei depositi, si tratta comunque di un nucleo ristretto di dipinti, sculture e disegni su cui è stato necessario intervenire. Oltretutto, la dottoressa Formenti ha precisato che «le opere non hanno subito danni ingenti, perché il protocollo di sicurezza ha funzionato bene e siamo riusciti a lavorare velocemente, evitando che le fiamme oppure l’acqua impiegata per spegnerle danneggiassero le opere. I problemi maggiori li abbiamo avuti con la fuliggine – perché chiaramente nonostante i guanti i segni delle movimentazioni, le ditate, si sono impressi sul retro delle opere e sulle tele non protette da vetro e cornice – e con le opere che erano state allestite a muro mediante ancoraggi che prevedevano avvitamenti. In questi casi lo stacco dal muro è stato più invasivo, inevitabilmente. Penso ad una tela di Francesco Bordoni, che era incorniciata e dotata di vetro protettivo, per cui abbiamo dovuto rompere il telaio e la tela si è strappata: non c’era modo e tempo di staccarla da muro utilizzando l’avvitatore. Oppure l’opera estroflessa Grigio di Agostino Bonalumi, un monocromo senza cornice del 1967 che in queste condizioni è risultato ancor più delicato da movimentare – poichè per sua natura la tela è più esposta a distacchi di colore – e che non è stato possibile mettere in sicurezza in quest’occasione, su cui è stato necessario intervenire in seguito. In generale però il lavoro di restauro si è concentrato su puliture e piccoli consolidamenti di colore e materiali».
Il piano di emergenza del Museo ha dunque funzionato bene, ed il lavoro di squadra ancora meglio «Dopo aver sgomberato i locali e dopo l’arrivo dei vigili del fuoco, il salvataggio delle opere si è messo in atto da sé: hanno collaborato tutti gli operatori del MaGa, molte persone. Siamo stati anche fortunati, perché nel caso della scultura in cemento di Tavernari, che si trovava all’interno di una teca di vetro, il giorno dopo l’incendio l’abbiamo trovata sepolta dalle macerie ma intatta, non solo lei ma anche la teca. Una cosa incredibile».
Un episodio drammatico che non ha interrotto l’attività del MaGa, ma ha di certo portato nuove consapevolezze a livello gestionale «Da quel giorno è cambiato tutto, dal punto di vista logistico e soprattutto da quello progettuale. Nessun corso e nessun master di museologia insegna che cosa accade e come deve comportarsi un direttore dopo un momento tragico come quello» il commento di Emma Zanella, direttrice del MaGa, che per volontà della Fondazione Silvio Zanella ha provveduto ad organizzare l’esposizione di parte della collezione in due prestigiose sedi temporanee – la Triennale di Milano e Villa Reale di Monza – per evitare che il pubblico rimanesse penalizzato dall’accaduto.
La nuova sede museale ha infatti riaperto al pubblico dopo due anni di lavori, il 19 aprile 2015, ed in occasione della ripresa delle attività la presidente in carica dal dicembre 2016, Sandrina Bandera, e il consiglio della Fondazione Zanella hanno potuto ricollocare all’interno della collezione le quarantanove opere danneggiate dall’incidente, pronte a sostenere la ripresa dell’attività espositiva.
http://www.ilgiornaledellefondazioni.com/content/cronaca-di-un-disastro-scampato-il-maga-ricorda-l%E2%80%99incendio-di-4-anni-fa-e-il-rischio-di-una

IL RESTAURO DEL CONTEMPORANEO FA LA FORZA: QUANDO LA SINERGIA È SINONIMO DI CONSERVAZIONE E TUTELA

Il Giornale delle Fondazioni
La primavera del restauro contemporaneo ha visto quest’anno sbocciare, letteralmente, una nuova collaborazione tra la Fondazione Centro per la Conservazione e il Restauro dei Beni Culturali La Venaria Reale (CCR), l’Università di Torino ed Intesa Sanpaolo.
L’inaugurazione del primo ciclo di lavoro è stata occasione concreta di premessa (l’11 marzo nei Laboratori del Centro di Venaria, alla presenza del presidente Stefano Trucco, del rettore Gianmaria Ajani e del responsabile delle attività cultutali del gruppo bancario,  Michele Coppola) rispetto alle iniziative comuni, partendo dalla ricerca e dall’intervento su quattro opere della collezione Novecento di Intesa, che sono state oggetto di studio per gli studenti del IV e del V anno del Corso di laurea.
Una collaborazione che conclude un primo ciclo di lavoro su opere di Mino Ceretti, Mimmo Rotella, Alberto Moretti ed Aldo Mondino, per avviarne immediatamente un secondo, a cavallo con l’apertura del nuovo anno accademico, e si concluderà a settembre. Le opere scelte in questo caso sono dipinti che comprendono olii su tela e acrilici, smalti e collage, ed in particolare si tratta di «Impronte rosse» di Paolo Baratella, «Senza titolo» di Sergio Dangelo, «Paesaggio con piramide» di Franco Angeli, «Composizione» di Maurizio Bottarelli, ed il progetto di tesi in corso sul dipinto «Ulivi a Bordighera» di Ennio Morlotti.

Quella della Fondazione Centro per la Conservazione e il Restauro dei Beni Culturali La Venaria Reale (CCR) è una partita che si gioca dal 2005 grazie alla comunione di intenti del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, la Regione Piemonte, la Provincia, i Comuni di Torino e di Venaria, l’Università e il Politecnico, la Fondazione per l’Arte della Compagnia di San Paolo e la Fondazione Cassa di Risparmio di Torino.
Un’unione di forze ed energie che sostiene ed incentiva i propositi sempre nuovi del Centro, meglio conosciuto come CCR, la più giovane e rampante tra le eccellenze italiane in termini di centri all’avanguardia per la ricerca, il restauro e la tutela dei beni culturali, dal primo giorno al lavoro su due strade che viaggiano in parallelo nella formazione dei restauratori di domani e in progetti di restauro di opere antiche, moderne e – sempre più – contemporanee.
Il CCR non è infatti nuovo ad iniziative dedicate all’arte dei nostri giorni, ed anzi si fa promotore di approcci sempre più propositivi e incentrati sulla sensibilizzazione di un pubblico specializzato, ma non solo. Ne è un valido esempio il ciclo di incontri organizzati da uno dei restauratori del contemporaneo per eccellenza, il professor Antonio Rava, che all’inizio di quest’anno solare ha costruito sette lezioni aperte al pubblico come agli addetti ai lavori, e altrettanti workshop tecnici rivolti a studenti di restauro e storia dell’arte, per sollecitare un dialogo in materia di problematiche relative il contemporaneo. Ad essere chiamati a tenere le lezioni sono stati ex studenti specializzatisi nella gestione di opere peculiari, fragili benché giovani – come le gomme di Carol Rama, oggetto di analisi approfondite da parte di Elettra Barberis, oppure le opere di Pinot Gallizio, la cui manutenzione è stata progettata da Paolo Gili – ma anche collaboratori di artisti come Piero Gilardi ed artigiani specializzati nell’utilizzo di materiali dalla natura complessa ed imprevedibile, come i siliconi, pane quotidiano di Michele Guaschino, braccio destro di Maurizio Cattelan.
Non meno frequentato è stato il seminario «(Im)-materialità e identità», dedicato alla fisicità dell’opera come scelta artistica, una volontà personale ma da condividere e spiegare ad un pubblico di addetti ai lavori e appassionati, una domanda raccolta con partecipazione da quattro artisti di diversa generazione, da Icaro a Tadiello. In un certo senso ha risposto alle sollecitazioni provenienti dal CCR anche il duo artistico Masbedo che, interessandosi alla ritualità ed alla devozione richieste dal restauro e dalla conservazione delle opere d’arte, ha coinvolto il CCR nella produzione dell’opera – una videoinstallazione – intitolata «Handle with care». Prima ancora, si ricorda la sperimentazione «Interview with art» avviata nel 2015-2016 con la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, che per un anno ha promosso l’intervista all’artista come strumento conoscitivo per la progettazione e realizzazione di un intervento di conservazione e/o restauro su opere di arte contemporanea.

Una panoramica articolata necessaria per inquadrare le proposte e gli intenti ultimi di una squadra che gioca ancora meglio quando coinvolge direttamente altri soggetti già attivi sul campo, quali appunto Intesa Sanpaolo e l’Università di Torino. Questa nuova collaborazione ha infatti già prodotto i primi risultati sui dipinti di Ceretti, Rotella, Moretti e Mondino selezionati da Michela Cardinali e Sara Abram, referenti per il CCR, all’interno di una rosa di opere necessitanti di un intervento proposta da Intesa.  «La Banca ha da sempre la sensibilità e la consapevolezza necessarie a prestare attenzione alle sue Collezioni, ed è attraverso la manutenzione periodica delle stesse che identifica necessità e priorità di intervento. « specifica lo staff di Intesa  «Nel 2012 è stato aperto il cantiere del Novecento, legato alla produzione artistica dell’ultimo secolo presente in Collezione, ed il CCR è parte attiva nel processo di monitoraggio delle opere. Collaborando con la didattica ed il CCR in generale abbiamo un canale preferenziale, anche se non esclusivo, cui facciamo riferimento e con cui lavoriamo a progetti condivisi, come nel caso altro dell’organizzazione del convegno sul contemporaneo Linee di Energia.»
Tra le opere selezionate per il primo ciclo di interventi, particolare attenzione ha richiamato Viola in Libertà di Aldo Mondino, la cui situazione conservativa ha motivato un progetto di tesi di laurea magistrale affidato alla studentessa Federica Puricelli. Il dipinto, realizzato nel primo decennio di produzione artistica di Mondino, ovvero tra il 1966 e il 1972, versava in condizioni precarie a causa di un sollevamento di colore importante, legato ad un problema di adesione e coesione dei diversi strati pittorici che ha reso difficoltosa non solo la sua eventuale esposizione, ma anche il trasporto e la movimentazione.
«Il fatto che l’opera abbia appena cinquant’anni non deve suscitare stupore» racconta la giovane restauratrice Puricelli «perché gli artisti del Novecento spesso utilizzavano tecniche e materiali di cui ignoravano la composizione, creando opere instabili nel tempo.» Non ha fatto eccezione Mondino, che ha dipinto Viola in libertà usando prodotti di formulazione industriale mescolati tra loro, colori a guazzo ed acrilici, ma senza l’intenzione, secondo gli assistenti dell’artista Nicus Lucà e Carlo Pasini, di dare al dipinto una connotazione precaria, un messaggio nascosto tra le pieghe del colore. Semplicemente, Mondino non ha potuto prevedere che la Puricelli avrebbe lavorato così presto al recupero delle scaglie di colore cadute, procedendo mediante due fasi di consolidamento, una localizzata che ha permesso la messa in sicurezza prima di procedere con una pulitura superficiale della pellicola pittorica, ed una successiva per risanare tutto il dipinto. È così che la Puricelli ha garantito l’integrità e l’originalità della sua opera, costruendo la strategia di restauro anche su un’analisi non invasiva preliminare «L’identificazione dei materiali costitutivi è stata frutto di una complessa e affascinante ricerca, le indagini scientifiche hanno assunto un ruolo chiave. La spettroscopia Raman e quella infrarossa hanno messo in luce i pigmenti organici utilizzati da Mondino, obiettivo arduo da perseguire. Una volta appurato che le gravi problematiche conservative erano dovute alle due differenti preparazioni, una di natura oleosa ed una vinilica, è stato possibile procedere con sicurezza per far riaderire gli strati di colore. La chiave di tutto? L’utilizzo del calore, che ha riattivato il legante presente nei diversi strati e li ha fatti riaderire. A quel punto ho potuto procedere con l’intervento di restauro vero e proprio. »
L’intervento estetico è perfettamente riuscito, al punto che resta individuabile, oltre alla documentazione fotografica di riferimento, solo grazie alla Fluorescenza ultravioletta, che evidenzia le integrazioni risultando molto più scura degli strati originali. Federica non ha dubbi, il suo lavoro conferma quello che da anni è una realtà con cui i colleghi restauratori e conservatori devono fare i conti «Il restauro dell’arte contemporanea è un ambito estremamente complesso, per cui spesso non ci sono casi studio o ricerche scientifiche a cui far riferimento. Gli artisti hanno impiegato prodotti industriali la cui formulazione non solo non è resa nota dalle case produttrici, ma varia a seconda dei marchi e viene modificata negli anni senza che i nomi commerciali vengano cambiati. »
Un terreno di confronto fertile e quanto mai attuale, una porta aperta a nuove esperienze concrete che siano di esempio e di aiuto ai restauratori che raccolgono la sfida, e per coloro che lo faranno negli anni a venire.

http://www.ilgiornaledellefondazioni.com/content/il-restauro-del-contemporaneo-fa-la-forza-quando-la-sinergia-%C3%A8-sinonimo-di-conservazione-e

Il mondo al di là dei muri. Khaled Jarrar e la sfida di vivere l’arte tra Israele e la Palestina

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Quel che succede sul nostro pianeta, con i suoi fatti di cronaca, le rivoluzioni epocali e le scoperte scientifiche – in generale con tutte le sue vicissitudini – lo veniamo a sapere prevalentemente tramite i media, che raccolgono informazioni da ogni dove e le riversano nelle nostre case attraverso internet, la televisione, i giornali. Rimaniamo quindi – giustamente, inevitabilmente – a distanza di sicurezza da quei luoghi teatro di divisioni e lotte interne, crocevia di tensioni e sofferenze legate a conflitti di religione, politici ed economici.
Situazioni al limite dell’umana concezione che da sempre segnano la vita dei popoli, ma mai come nel nostro tempo possono essere denunciate in tutto il mondo, ed addirittura possono essere raccontate nel dettaglio. Il problema è che in poco tempo siamo arrivati al punto di abituarci ed assuefarci al dolore, alla violenza che non bussa davvero alla porta di casa nostra ma che ci esplode comunque negli occhi tutti i giorni.
Uno scossone rispetto a questo tipo di reazione può arrivare sotto forme differenti, ed una di queste è legata al mondo dell’arte: così come noi rispondiamo in maniera differente quando gli avvenimenti ci toccano personalmente, così anche molti artisti vivono in prima persona realtà complesse e drammatiche. Descrivendo in prima persona il mondo da cui provengono, si avverte nelle loro opere il senso di responsabilità di chi deve portare un messaggio non banale, non pietoso, non tradizionale, perché è necessario che chi sta ascoltando registri le informazioni. E non dimentichi, ma si impegni ad approfondire, magari a contribuire a cambiare le cose.
Nato nel 1976 a Jenin, in Cisgiordania, Khaled Jarrar è un artista che oggi si batte, vive e lavora a Ramallah, in Palestina. Dopo un periodo di studi concluso negli anni Novanta presso il Politecnico della capitale, dove si è specializzato in Interior Design, ha iniziato il suo percorso artistico e scelto di laurearsi, anche se diversi anni dopo (nel 2011), all’Accademia delle Belle Arti. È stata un’ulteriore soglia da varcare, solo l’ultima di una serie aperta dalla sua testimonianza di artista “resistente” e dal suo vissuto, ovvero il fulcro del suo lavoro, quello che viaggia in tutto il mondo attraverso mostre personali e collettive, quello che ha portato il suo sguardo sulla realtà palestinese ed israeliana sotto gli occhi di tutti. Anche quando lui non ha potuto seguirlo, bloccato dalle autorità all’interno dei confini del suo paese perchè viaggiare non è una sua scelta, né un suo diritto. “Il suo lavoro è investito dalla testimonianza della realtà e dal catturare la storia come si dipana davanti ai suoi occhi – ha commentato il curatore e critico Massimiliano Gioni – purtroppo, è fin troppo chiaro che la realtà e la storia fanno a modo loro”.
Khaled Jarrar è noto per installazioni, performance, reportage e documentari, come The Infiltrators, presentato nel 2012 e vincitore di premi prestigiosi, tra cui la nona edizione del Dubai International Film Festival. Una viaggio all’interno del viaggio stesso, quello di un gruppo di palestinesi che attraversano da clandestini il muro di separazione tra Israele e Cisgiordania. Un lavoro che lo ha definitivamente consacrato nella rosa degli artisti capaci di piegare ogni mezzo a disposizione, che sia una fotografia oppure un video, alla necessità di far recepire e percepire la realtà spiazzante e violenta in cui è nato e ha scelto di vivere. Sono oltre dieci anni che Jarrar ha preso in mano la sua vita e ne ha fatto una testimonianza, una richiesta di ascolto, raccontando per sensazioni l’impatto delle lotte elettorali sui cittadini, l’occupazione israeliana della Cisgiordania, la clandestinità e la perdita di libertà di un popolo, attraverso lavori come Vivere e lavorare in Palestina, una serie di timbri e francobolli dello Stato di Palestina apposti su passaporti e su lettere da spedire, una forma di resistenza simbolica all’occupazione israeliana. Evidenziando ogni volta come le barriere che limitano la libertà dei popoli, fisiche e mentali, nulla possono contro la volontà di espressione, l’arte e la cultura.
“Tutto quello che faccio è in nome dell’arte, mi piace l’idea che l’arte ci dia tutta questa libertà e lo spazio per praticare la nostra creatività concretamente, non solo sulla carta. È così che possiamo sollevare domande e raccontare le storie che porteranno a soluzioni che ci permetteranno di andare oltre i confini.”
http://eastwest.eu/it/cultura/arte-e-architettura/il-mondo-al-di-la-dei-muri-khaled-jarrar-e-la-sfida-di-vivere-l-arte-tra-israele-e-la-palestina

Un microcosmo di gommapiuma. L’arte sensoriale di Piero Gilardi in mostra all’Accademia di Belle Arti di Carrara

Arte contemporanea
Laddove normalmente proliferano gessi, marmi e sculture classiche di vario genere, da ieri fioriscono distese organiche, frutto di una natura vivace, colorata, morbida. Parliamo dell’Aula Magna dell’Accademia di Belle Arti di Carrara, che ospiterà per tutto il periodo estivo un grande protagonista – specialmente quest’anno, indiscutibilmente il suo anno – del panorama artistico nazionale ed internazionale.
Dopo la grande retrospettiva inaugurata ad aprile al MAXXI di Roma, che approderà anche al Centre Pompidou di Parigi e al Centro Reina Sofia di Madrid, dopo convegni e giornate di studio a cui è stato chiamato a partecipare come relatore insieme ai responsabili del PAV – Padiglione d’Arte Vivente di Torino -, ecco inaugurato un nuovo momento di incontro con Piero Gilardi, papà delle spiagge e dei cieli in poliuretano espanso.
L’Aula Magna dell’Accademia di Belle Arti di Carrara si fa infatti teatro – o meglio serra, giardino – di un approfondimento dedicato ad un tema da sempre caro a Gilardi, ovvero il rapporto tra uomo, cultura e natura. Un confronto incoraggiato dalla presenza di nove lavori prodotti a partire dagli anni Sessanta, due installazioni interattive e sette Tappeti-Natura, opere che rappresentano angoli di natura incontaminata fatti di gommapiuma, un materiale morbido al tatto e in un certo senso anche alla vista. Parliamo della tipologia di lavori più famosi di Gilardi, scorci universalmente riconoscibili nel mondo dell’arte, paesaggi intrisi di una poetica che rimanda alla Pop art ed omaggia il suo mentore, Claes Oldenburg.
L’esposizione a Carrara si serve delle spiagge e dei gabbiani, dei greti di torrenti come dei campi coltivati ed ancora dei boschi innevati, per creare un paesaggio inedito, sospeso tra natura e artificio, che accoglie il visitatore con l’intento di istruirlo ed aprirgli gli occhi. Infatti, scopo ultimo della poetica gilardiana è di riportare nel mondo la giusta dose di attenzione e dedizione nei confronti dell’ambiente, non solo per ammirarne la bellezza e l’eterogeneità, ma anche per responsabilizzarci – finchè siamo in tempo – rispetto ai pericoli dell’industrializzazione e dei cambiamenti climatici dovuti all’inquinamento. Gilardi, classe 1942, si è distinto fin dall’inizio della sua carriera per il suo impegno politico e sociale, sostenuto da una creatività dirompente e dal fascino delle nuove tecnologie interattive. La sua espressività, la sua indipendenza come artista, la piena coscienza delle problematiche relative il disastro ecologico corrente, sono alcuni dei punti di forza ed anche di partenza per approfondire non solo la sua produzione, ma l’evolversi della stessa con il passare del tempo.
Il titolo della mostra, Estetiche dell’Antropocene, porta quindi a riflettere sull’era geologica attuale, nella quale all’essere umano e alla sua attività sono attribuite le cause principali delle modifiche territoriali, strutturali e climatiche.  Siamo in grado di utilizzare quello che abbiamo a disposizione – l’arte, la tecnologia, i mezzi di comunicazione – per svegliarci dal nostro torpore, per agire a difesa della natura e della vita? Come ricorda Gilardi, “L’Arte deve entrare nella vita, ma dato che la vita è alienata, occorre impegnarsi anche a liberare e disalienare la vita.”
http://eastwest.eu/it/cultura/arte-e-architettura/un-microcosmo-di-gommapiuma-l-arte-sensoriale-di-piero-gilardi-in-mostra-all-accademia-di-belle-arti-di-carrara

L’Europa e i liberi confini negli scatti del fotografo Valerio Vincenzo

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Valerio Vincenzo è un fotografo napoletano, classe 1973, con una vita scandita dagli scatti e molti ricordi alle spalle legati al suo nomadismo professionale, diviso tra i Paesi Bassi, Parigi e Milano. Vincenzo ha vissuto i suoi primi vent’anni in un’Europa totalmente differente da quella che conosciamo oggi, un paese fatto di dogane e frontiere che dal 1995 si trovò ad attraversare, giovane studente di economia, con in tasca i documenti e una partnership in International management, direzione Francia.
Passare i controlli? Non una banalità, ha raccontato in un’intervista “Dovevi rispondere a certi requisiti, per esempio, avere una certa somma di denaro su un conto bancario francese. Noi, che eravamo tutti studenti, avevamo sviluppato questa tecnica: versavamo tutti i soldi sul conto di uno che faceva la sua domanda. Poi questi soldi passavano sul conto del secondo che faceva la sua domanda e così via. Io credo di essere stato chiamato in Prefettura cinque o sei volte, l’ultima volta, perché avevo firmato dei documenti con la penna blu, mentre avrei dovuto firmarli con quella nera”.
La possibilità di viaggiare e circolare liberamente, sancita dall’Accordo di Schengen tra gli anni Novanta e Duemila, è un privilegio che Vincenzo ha voluto ricordare e raccontare attraverso le sue immagini, scattate all’interno di un progetto fotografico cominciato dieci anni fa. Un percorso lungo più di 20.000 km, intrapreso lungo le rotte indicate dai GPS e dalle mappe stradali, alla ricerca di una traccia di quei confini oggi cancellati dalla natura e dall’uomo, una celebrazione della libertà resa attraverso la profonda serenità che alberga in più di 130 vedute. Percorrendo a zig-zag la frontiera, Vincenzo ha allenato il proprio occhio, capace negli anni di scovare posti forti, interessanti visivamente e storicamente “Uno dei posti più emozionanti che ho visto è la frontiera tra l’Austria e l’Ungheria: un posto molto intenso, dove, durante la Guerra Fredda, c’è stato il famoso pic-nic che ha dato il via all’abbattimento della Cortina di Ferro.”
Il progetto è stato ispirato dal ricordo del suo vissuto, ma è ad una foto di Cartier Bresson che raffigura una dogana a Bailleul, tra la Francia e il Belgio, che si deve la scintilla che ha fatto divampare Borderline – Frontiers of Peace. I 26 paesi appartenenti allo spazio Schengen, con i loro 16.500 km di confini oggi liberamente valicabili, sono stati attraversati dal fotografo nel corso di diversi viaggi. Il primo ha visto Vincenzo seguire la frontiera orientale della Francia, dal Belgio fino a Ventimiglia, scattando centinaia di fotografie di cui ne ha selezionate una decina, servendosene per finanziare i viaggi successivi. Così, anno dopo anno, ha raccolto i fondi per ogni nuovo viaggio, compiuto nel periodo estivo, cioè quando le giornate sono più lunghe e più luminose, ed è riuscito a portare a termine il progetto quasi allo scadere del decimo anno.
Anche se non è detto che si concluda definitivamente, anche vista l’attualità del tema proposto. “Per quello che vedo e che leggo, in realtà ormai è tardi: non si può più tornare indietro. La libera circolazione in Europa ha già mostrato tutti i suoi lati positivi per poterla cancellare in un attimo. […] Quella che si vede oggi è una situazione di crisi che non è destinata a durare. Anche la guerra in Siria un giorno finirà e, quel giorno, le migliaia di rifugiati che oggi bussano alle porte d’Europa torneranno nel proprio Paese. Quando è stata concepita l’area Schengen non si era previsto che potessero ricrearsi situazioni come quella attuale per cui si stanno creando dei problemi amministrativi che non si è in grado di risolvere.”
Fino al 15 giugno una selezione di immagini è stata esposta all’Italian Cultural Center di Zagabria, a seguito di altre esposizioni in Francia e Belgio susseguitesi a partire dall’inizio di quest’anno, consacrate in una pubblicazione dedicata.
http://eastwest.eu/it/cultura/arte-e-architettura/l-europa-e-i-liberi-confini-una-storia-giovane-raccontata-negli-scatti-del-fotografo-valerio-vincenzo

Che forma ha la precarietà dell’esistenza? Charles Ray al George Economou Collection Space di Atene

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George Economou è famoso per essere un milionario armatore greco, espatriato negli anni Settanta per studiare al prestigioso Massachusetts Institute of Technology, che ne ha fatto un grande ingegnere navale ed ha avviato la sua brillante carriera.
Ma è la sua grande passione per l’arte contemporanea, che lo ha portato ad essere un collezionista attento e strategico con un’esperienza ormai trentennale, che merita in questa sede la nostra attenzione. Infatti a cominciare dai primi anni ’90, George manifestò un amore dedicato, quasi esclusivo, nei confronti dell’arte europea del ventesimo secolo, soprattutto per le produzioni del secondo dopoguerra e per l’espressionismo tedesco. Conosciuto nell’ambiente per il lavoro di raccolta certosino con cui si è aggiudicato l’intera opera grafica di Otto Dix e Otto Mueller, George acquisì negli anni a venire anche molti capolavori di Anselm Kiefer, Georg Baselitz, Andreas Gursky, Ellsworth Kelly, Cady Noland e Charles Ray. Finchè, nel 2012, non decise di condividere con il pubblico la sua collezione, inaugurando uno spazio espositivo nei sobborghi di Atene che porta il suo nome e dove ogni anno vengono organizzate almeno un paio di mostre temporanee in collaborazione con istituzioni e curatori internazionali. Spesso si tratta di approfondimenti che partono da una o più opere della sua collezione, e questa occasione non fa eccezione; la mostra è infatti interamente dedicata a Charles Ray, artista americano suo coetaneo (classe 1953), ed è stata curata dallo stesso Ray in collaborazione con Gavin Delahunty, curatore del Dallas Museum of Art, e con Skarlet Smatana, direttrice del George Economou Collection Space.
Il nucleo centrale dell’esposizione pone in dialogo tra loro quattro importanti sculture dell’artista, realizzate a partire dagli Settanta, le quali hanno in qualche modo cadenzato la sua produzione ed il suo pensiero artistico. Ray infatti ha concentrato molta della sua attenzione nella realizzazione di readymades e di sculture, astratte o figurative, accomunate da un’aura percepibile dal visitatore, permeate da una realtà molto più complessa di ciò che percepiamo o immaginiamo, a volte del tutto contrastante con la materia di cui esse stesse sono fatte.
La mostra si apre con l’ultima creazione di Ray, una scultura in alluminio che riproduce i reperti archeologici provenienti dal santuario di Demetra nell’antica città greca di Eleusi, raffiguranti i Misteri Eleuisini ed oggi conservati al MET di New York, e continua attraverso opere che Ray ha realizzato partendo da oggetti comuni e da riflessioni quotidiane, come nel caso di Handheld Bird, 2006, una scultura in acciaio verniciata che riproduce un uccellino in forma embrionale, inducendo una riflessione allo stesso tempo cruda e tenera sulla trasformazione, sulla vita e sulla morte. D’altra parte, il linguaggio scultoreo di Ray spesso tradisce sensazioni di disagio, la consapevolezza che siamo esseri di passaggio su questa Terra, l’interesse a dare una rappresentazione molto intima e personale della provvisorietà dell’esistenza. È probabile che il fatto di avere una sorella schizofrenica lo abbia molto influenzato sia nell’approccio artistico quanto in quello della vita di tutti i giorni, come è emerso da un’intervista con Robert Storr del 1998. Alla domanda se vivere accanto a una schizofrenica avesse influenzato il suo lavoro, l’artista ha infatti risposto: “Molto, veramente molto. È stato un po’ come crescere con L’Esorcista. Davvero bizzarro e allo stesso tempo molto normale per noi. […] Ricordo che una volta i miei genitori ci portarono a fare quello che doveva essere un viaggio di cinque giorni nel Wisconsin, e [mia sorella] urlò a tutto spiano durante le sei ore di viaggio. Era come un urlo di Munch, qualcosa del genere, non aveva fine. E quando arrivammo non smise, così dovemmo stare in macchina con lei tutta la notte a turno, in gruppi – con l’urlo”.
http://eastwest.eu/it/cultura/che-forma-ha-la-precarieta-dell-esistenza-charles-ray-al-george-economou-collection-space-di-atene

Ai Weiwei portavoce dei rifugiati. L’arte per i valori e i diritti umani

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La situazione dei rifugiati politici è una ferita aperta che fa parlare quasi ogni giorno non solo quotidiani ed emittenti televisive, ma anche il mondo dell’arte e della cultura in generale, che partecipa attivamente al dialogo e alla denuncia.
Nel tentativo di dare voce a chi rischia di perderla del tutto, di scuotere gli animi anestetizzati di fronte a scene di violenza e disperazione che si ripetono da anni, e di contestare la crisi umanitaria più pesante del nostro tempo, gli artisti contemporanei riversano l’attualità in progetti toccanti, impossibili da ignorare. In particolare si pensi alla firma di Ai Weiwei, artista cinese ormai noto in tutto il mondo per i suoi sessant’anni da dissidente, particolarmente sensibile al difficile equilibrio tra libertà e tradizione, tra esilio e salvezza, a proposito di cui ha dichiarato Non c’è una crisi legata ai profughi, ma solo crisi umana… Nel trattare con i rifugiati abbiamo perso i nostri valori fondamentali”.
Lui che della difesa di questi diritti e valori umani ha fatto la sua ragione di vita, a fronte di un vissuto personale travagliato, di una lotta all’ultimo grido culminata in un arresto durato 81 giorni e nella revoca dei documenti che per lungo tempo l’hanno tenuto prigioniero nel suo stesso paese, l’artista ha scelto di farsi portavoce per coloro che non hanno più fiato. Oggi, di nuovo libero di muoversi per il mondo, Ai Weiwei ha scelto infatti di concentrare la propria energia creativa nel dare testimonianza dell’esperienza condivisa con i rifugiati, quella di vivere in un mondo in cui non tutti sono i benvenuti, non tutti trovano una nuova casa. “Ho pensato alla mia esperienza come rifugiato. Quando sono nato, mio padre, Ai Qing, è stato denunciato come nemico del partito e del popolo. Siamo stati mandati in un campo di lavoro in una regione remota lontano da casa […] È un’esperienza terribile essere considerato straniero nel tuo paese, nemico della tua gente e delle cose che mio padre amava di più”.
Il momento in cui l’artista cinese è tornato in possesso dei propri documenti e della propria libertà di movimento, nel 2015, ha coinciso con l’inasprirsi dei conflitti in Siria e l’esodo in Europa di migliaia di profughi, in fuga senza aiuti, senza sostegno, senza umanità. È allora che sono iniziate per l’artista le testimonianze pubbliche, come nel caso della marcia nel centro di Londra del 17 settembre 2015 in compagnia dello scultore indo-britannico Anish Kapoor e di decine di persone, con cui ha reclamato risposte “umane piuttosto che politiche” alla crisi dei migranti, il cui numero aveva già raggiunto la cifra record di 60 milioni.
Senza dimenticare le successive visite ai campi profughi di Lesvos, al confine tra la Grecia e l’ex Repubblica iugoslava di Macedonia, che hanno innescato un meccanismo a catena, una raccolta di testimonianze lunga tutto il 2016 attraverso 22 paesi, dall‘Afghanistan al Bangladesh, dalla Francia all’Ungheria, dall’Iraq alla Giordania, dall’Italia al Kenya, dal Messico alla Palestina, Serbia. Venticinque le troupe cinematografiche coinvolte da Ai Weiwei con l’obiettivo ultimo di presentare al mondo – per la fine del 2017 – il documentario Human Flow, un lavoro di immersione nella tragica connessione tra esseri umani così diversi eppure così dolorosamente simili. Un’opera totalizzante, che l’artista ha definito “un viaggio personale, un tentativo di comprendere le condizioni dell’umanità nei nostri giorni”.
Ai Weiwei ha inoltre presentato una serie di altri progetti artistici che viaggiano per il mondo in parallelo, sempre incentrati sull’odissea globale contemporanea, e non ha intenzione di fermarsi. Ne sono un esempio Odyssey, l’installazione realizzata per lo spazio espositivo di ZAC – Zisa arti contemporanea a Palermo, che fino al 20 giugno 2017 interesserà l’intera superficie dell’area per circa 1000 metri quadrati. Si tratta di un’installazione realizzata attraverso una lunga ricerca iconografica – partendo dalle icone del Vecchio Testamento fino ad arrivare alle immagini tratte dai social media – tradotta e mostrata al pubblico sotto forma di materiale raccolto personalmente dall’artista ed organizzato con una grafica accattivante e attrattiva, in contrasto con i forti contenuti. Alla Galleria Nazionale di Praga è invece in mostra fino a gennaio 2018 “Law of the journey” (La legge del viaggio), un gommone gonfiabile lungo 70 metri contenente 258 sculture di rifugiati, di dimensioni più grandi del naturale, sospeso nella grande sala espositiva.
“In questo momento di incertezza, abbiamo bisogno di più tolleranza, compassione e fiducia per l’altro dal momento che tutti siamo uno. In caso contrario, l’umanità dovrà affrontare una crisi ancora più grande.”
http://eastwest.eu/it/cultura/ai-weiwei-portavoce-rifugiati-arte

L’arte di raccontare la vita e le emozioni in silenzio. Marisa Merz in mostra all’ Hammer Museum, Los Angeles

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Non è detto che le grandi donne siano sempre dietro i propri grandi uomini, a volte sono al loro fianco e condividono con loro la scena e – in questo caso – l’ispirazione e l’incredibile creatività. Parliamo di Marisa Merz, unica donna ammessa nel circuito dell’Arte Povera, protagonista silenziosa e schiva della scena artistica italiana da oltre cinquant’anni nonché moglie del compianto Mario, il papà degli igloo e delle infinite serie di Fibonacci.
Nonostante l’imponente ed esuberante presenza del marito, Marisa ha portato avanti con coerenza ed eleganza un percorso intimistico ed enigmatico, per molti versi visionario, che nell’arco di cinque decadi si è ancorato nell’immaginario collettivo non con meno forza delle opere di Mario, famose e riconoscibili in tante collezioni – museali e non – in giro per il mondo.
Al punto che oggi sono stati due i musei americani impegnati nella curatela della prima grandiosa retrospettiva dedicata alla minuta artista torinese: l’Hammer Museum di Los Angeles ed il Metropolitan Museum of Art di New York, che hanno collaborato a stretto giro con la Fondazione Merz di Torino per documentare ed aggiornare il lavoro di Marisa.
Classe 1926, Marisa esordì nel mondo dell’arte esattamente quarant’anni più tardi, esponendo nel suo studio di Torino alcune sculture realizzate con lamine di alluminio, opere dalle forme mobili e irregolari, che si opponevano con forza alla scultura tradizionale, terrena e pesante. Furono il suo interesse per i materiali grezzi – terra cruda e alluminio, ma anche cera e oggetti del quotidiano -, ed il suo minimalismo ad avvicinarla al gruppo dell’Arte Povera, di cui faceva parte anche Mario, all’epoca suo marito da oltre quindici anni.
Nel 1968, in occasione della collettiva Arte Povera + Azioni Povere cui fu invitata a partecipare, Marisa scelse di esporre alcune opere realizzate utilizzando delle coperte arrotolate e trattenute con filo di rame oppure nastro adesivo (Senza Titolo, 1966) ed altre ispirate all’infanzia della figlia Beatrice, realizzate ancora con filo di nylon, rame e lana. Fu così che l’artista introdusse nel linguaggio della scultura contemporanea il ricamo ed altre pratiche tradizionalmente legate al lavoro femminile, sconvolgendone la destinazione e attribuendo ai materiali ed alle tecniche scelte una nuova identità artistica.
Ispirata dai grandi del secolo, come Picasso e Calder, l’artista scelse con consapevolezza di introdurre nella scultura e nei suoi lavori la nozione del gioco e di leggerezza, senza per questo perdere di sensibilità e presenza all’interno delle proprie opere, tanto che la contaminazione continua tra dimensione privata e pubblica, tra componenti affettive e sperimentazioni materiche, è un fil rouge importante nella produzione dell’artista. Le sue opere sono custodi di significati e ricordi, strette in un abbraccio che comprende gli affetti e la vita quotidiana di Marisa, chiavi di lettura fondamentali del suo fare artistico.
Negli ultimi anni le sue opere sono state oggetto di numerose mostre personali museali, dal MADRE di Napoli allo Stedelijk Museum di Amsterdam, dal Kunstmuseum di Winterthur al Centre Pompidou di Parigi, in un crescendo di premi – il Leone d’oro della Biennale nel 2013, per citarne uno – e riconoscimenti che arriva quest’anno alla mostra curata da Connie Butler, curatrice dell’Hammer Museum, e da Ian Alteveer, associate curator presso il Dipartimento di Arte Moderna e Contemporanea del Metropolitan Museum of Art.
In esposizione circa un centinaio di opere, tra sculture, pitture e installazioni, dai primi esperimenti inseriti nel circuito dell’Arte Povera alle teste e volti enigmatici degli anni Ottanta e Novanta, fino alle più recenti installazioni. “Nel mio immaginario – spiega l’artista – quello che scopro, non lo chiamo conoscenza, per me, è la felicità . Appena diventa conoscenza, la felicità è perduta. Non so se la conoscenza contenga del dolore. Credo che sia la ripetizione, una cosa che conosci già. A differenza della felicità che è una sorpresa, uno stupore, quell’instante preciso, ecco. Ma io ho uno spirito bizzarro”.
http://eastwest.eu/it/cultura/arte-e-architettura/l-arte-di-raccontare-la-vita-e-le-emozioni-in-silenzio-marisa-merz-in-mostra-all-hammer-museum-los-angeles

Pol Bury e l’arte della lentezza in mostra al Palazzo delle Beaux Arts di Bruxelles

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Il Palazzo delle Beaux Arts di Bruxelles, da cui l’assonante pseudonimo di Bozar, è il centro museale per eccellenza della capitale belga. Il maestoso edificio deve la sua storia al banchiere e mecenate Henri Le Boeuf che, nel 1922, incaricò il maestro dell’art nouveau Victor Horta della costruzione di un palazzo a suo dire mancante in città, una struttura che fosse all’altezza ed in grado di accogliere concerti, mostre d’arte e manifestazioni legate al cinema, al teatro e alla danza.
Il risultato lo consacra ancora oggi come il centro culturale di riferimento, al suo interno vi trovano casa la Cineteca Reale e la sede dell’Orchestra Nazionale Belga, oltre al museo d’arte moderna e contemporanea, ospitante numerosi eventi temporanei, come la mostra che ha inaugurato l’anno espositivo 2017 e che chiuderà i battenti questo week end. L’esposizione è stata dedicata al connazionale Pol Bury, scomparso un decennio fa ma conosciuto in tutto il mondo per essere stato uno dei maggiori esponenti dell’arte cinetica, ma non solo. Un artista a 360°, che aveva la curiosità e la necessità di sperimentare tecniche e materiali innovativi, ma anche mondi paralleli a quello dell’arte, come l’oreficeria ad esempio.
Pol Bury nacque nel 1922, lo stesso anno in cui venne commissionato il progetto del Bozar, e proprio come nel caso di questo simbolo dell’art nouveau, anch’egli si differenzierà per dettagli e sfumature innovative, per plasticità e movimento unici nel loro genere. Il suo avvicinamento all’arte – dopo un periodo di formazione all’Accademia delle Belle Arti di Mons – sarà all’insegna del surrealismo, anche grazie all’incontro con Maigritte negli anni Quaranta, e culminerà nella partecipazione all’Esposizione universale surrealista del 1945. Bury non rimase indifferente nemmeno all’arte di Mondrian e di Mirò, il che spiega perché i suoi dipinti e i disegni degli anni Cinquanta vireranno verso l’Astrattismo, un tuffo nel segno e nel colore fino alla scoperta di Calder nel 1953, che fu per l’artista una vera e propria epifania. Incominciò quindi per Bury il tempo della scoperta, delle potenzialità e del fascino insiti in materiali come legno, acciaio e sughero, delle sperimentazioni in serie come Multiplans e Ponctuations, che lo traghetteranno verso le esposizioni degli anni Sessanta e verso l’approdo parigino. É datata 1961 la serie Ponctuations érectiles e 1963 la produzione dei famosi Volumes ouverts et fermés, sculture che integrano al loro interno il concetto di movimento rivisto da Bury in chiave personale e del tutto innovativa rispetto alle opere in Calder, basato sulla relazione tra componenti mobili ed immobili, su forme che lo spettatore può animare a suo gusto.
Dai pannelli costituiti da lame oblique verticali, la cui lettura varia in base al punto di vista e posizione dell’osservatore, al motore elettrico che animerà le sue opere dotandole di una lentezza calcolata, ai giochi di luce, alle sfere, ai dischi… tutti questi elementi scelti contribuiranno a costruire il linguaggio plastico – e riconoscibile – di Bury.
Negli anni la scultura di Bury evolverà ulteriormente, arrivando a crescere in dimensioni e imponenza, tant’è che molte delle sue opere più famose sono pubbliche e monumentali, e spesso si tratta di fontane, come quelle a Palais Royale a Parigi, ma non solo. Sfruttando l’energia dell’acqua per la forza cinetica, tramuta i getti e gli schizzi in una danza perpetua oggi visibile alla Fondazione Maeght di Saint-Paul-de-Vence, al Guggenheim Museum di New York, a Montecatini Terme.
Una retrospettiva ricca di contenuti ed opere di ogni genere, la più importante mai dedicata a Bury, l’artista belga più famoso da vent’anni a questa parte. “Per me il movimento è un mezzo, come il colore e la linea per i pittori. […] La percezione del movimento deve essere immediata ed evidente allo spettatore; Soprattutto, i mezzi utilizzati per creare l’animazione devono essere invisibili e facilmente dimenticati.”
http://eastwest.eu/it/cultura/pol-bury-e-l-arte-della-lentezza-in-mostra-al-palazzo-delle-beaux-arts-di-bruxelles