Burri e la memoria dei materiali. Ricordi secolari in mostra al Guggenheim di New York

Arte moderna, East magazine, Mostre
È difficile non aver notato, nel corso di quest’anno, il fatto che il mondo dell’arte ha voluto celebrare a livello mondiale il centenario della nascita di un grande artista italiano, conosciuto per le sue sperimentazioni all’insegna dell’uso et abuso materico, oggi famose per la loro potenza innovatrice. Nel caso non abbiate idea di chi o cosa stia parlando, vi basterà seguire la direzione verso cui puntano i fasci dei riflettori, questo week end interamente dedicati al più importante evento in questo fitto carnet di appuntamenti, ovvero la monumentale retrospettiva allestita in onore di Alberto Burri, presentata al Guggenheim di New York con il titolo The Trauma of painting.
È passato un secolo da quando Burri ha visto la luce a Città di Castello (Perugia), nel marzo 1915, e poco di meno da quando il destino – sotto forma di Secondo conflitto mondiale – non lo ha instradato verso orizzonti totalmente differenti da quelli che si era immaginato al termine dei suoi studi di Medicina. La prigionia cui venne costretto nel 1943, più precisamente nel campo di Hereford in Texas, gli diede modo e tempo di cominciare a dipingere, stravolgendo la sua vita al punto che, solamente tre anni dopo, a Roma verrà presentata la sua prima personale. Da quel momento i ferri del mestiere divennero altri, anche se non esattamente pennello e tavolozza: a partire dagli anni ’50 il suo lavoro è infatti caratterizzato da un susseguirsi di serie conosciute come i Sacchi, cui seguiranno i Legni, le Plastiche, i Ferri, i Cretti, i Catrami, i Cellotex… Prima che pratici riferimenti ai materiali oppure ad una specifica fisicità, questi titoli descrivono le derive artistiche di Burri, definiscono le sue creature, figlie dell’esistenza e della sofferenza dell’uomo in quanto essere mortale, prodotti della sua naturale spinta evolutiva. Vita ed afflizioni evocate dalle bruciature, dagli strappi, dalle spaccature, dalle toppe e dalle cuciture che plasmano di volta in volta il supporto, rendendolo unico, irripetibile. Un lavoro di interazione con i materiali quello di Burri, una manipolazione che sfocia evidentemente in una terza dimensione oltre i limiti fisici della tela o della tavola, facendosi metafora rispetto ai confini della vita reale. Una dimensione sconosciuta, in cui l’artista è consapevole di non avere il controllo assoluto della situazione, perché la risposta alle sollecitazioni – fuoco, tagli, abrasioni – che infligge ai supporti scelti – tessuti, plastica, legno, cellotex – è sempre diversa ed imprevedibile. Il risultato? Opere che possono portare con sé stratificazioni impegnative perché evidenti come toppe, oppure supporti dilaniati, altrettanto grandiosi anche se di loro non resta che un semplice brandello tra una lacerazione e l’altra, vere protagoniste del lavoro.
A conti fatti, non stupisce il fatto che Burri sia considerato “l’anello di transizione tra collage e assemblaggio”, ed il percorso forzatamente ascendente del Museo di Frank Lloyd Wright tende a sottolineare il vortice di innovazione creata dal maestro italiano. Procedendo tra le quasi cento opere esposte – alcune in America per la prima volta, altre ritornate dopo l’ultima esposizione dedicata a Burri, risalente ai primi anni Ottanta – ci vuole molto poco a rendersi conto che fu uno dei precursori che più influenzò gli artisti moderni per quanto riguarda correnti come il Neodadaismo, l’Arte Processuale e l’Arte Povera. Ciononostante, le sue parole – tratte da un’intervista pubblicata da Allemandi nel 1995, anno in cui l’artista si spense – risultano preziose per interpretare al meglio il suo lavoro “Io vedo la bellezza e basta. E la bellezza è bellezza, sia che sia un bellissimo sacco, sia che sia un bellissimo cellotex, o un bellissimo legno, o ferro, o altro… È uguale. Ugualissimo. Purché sia “bello”, purché sia fatto come io posso riuscire a farlo. E il giorno che non mi riesce più di farlo così, smetto e cambio. Ogni quadro che faccio, con qualunque materiale, sta sicuro che per me è perfetto. Perfetto come forma e come spazio. Forma e spazio: queste le qualità essenziali, che contano davvero. È evidente che la mia liberà creativa si manifestava nella ricerca del momento in cui trovavo l’equilibrio. L’equilibrio! Tutti questi analogismi tra combustioni e “cretti” non c’entrano proprio niente. Una cosa sono i cretti, un’altra le combustioni, ma tutte tendevano verso l’equilibrio, il “mio” equilibrio.”
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