Il primo week end del mese di aprile si è distinto a livello artistico per la presentazione di una nuova grande retrospettiva tutta al femminile, questa volta dedicata alle opere dell’eccentrica Carol Rama. Si tratta della sua prima personale parigina, frutto di un progetto itinerante che ha visto la sua presentazione ufficiale al Macba di Barcellona, in occasione dell’inizio dell’anno, e che prevede nuove tappe in Finlandia, Irlanda ed infine in Italia, nella sua città natale, Torino. L’esposizione francese, arricchita dalla curatela della direttrice del museo Anne Dressen, presenta oltre 200 opere dell’artista torinese, accomunate dal fil rouge della passione, come suggerito dal titolo dell’evento, La passion selon Carol Rama. Attraverso i potenti moti d’animo della pittrice è possibile ripercorrere la sua crescita personale ed artistica, in un susseguirsi di proposte tematiche e cronologiche che spazia dagli acquerelli ai bricolages, alle opere frutto dell’utilizzo di materiali non istituzionali come camere d’aria delle biciclette, cuoio, copertoni dipinti.
La quasi centenaria Carol non ha mai fatto mistero delle sue radici borghesi e delle tradizioni cattoliche su cui è stata imbastita la sua educazione, le quali certamente contribuirono ad alimentare nella giovane artista il gusto per il proibito e fascinazione per il concetto di peccato, di cui parla come a ricordare un vero e proprio maestro. Per non parlare degli eventi traumatici della sua vita – la morte prematura del padre e la conseguente depressione clinica della madre – che indubbiamente restituirono angosce e pensieri che hanno alimentato l’immaginario dell’artista. Il personaggio di Carol Rama si compone quindi di vari elementi: grande curiosità e la volontà di affermarsi al di sopra di qualsiasi etichetta, il rifiuto delle regole e la ricerca di un individualismo che le restituisse un’assoluta libertà. La sua forte personalità l’ha portata ad avvicinarsi a tutte le grandi correnti artistiche del XX secolo – Surrealismo, Pop Art, Arte Povera – senza mai far parte di nessuna di queste. Il risultato? La volontà declinata in Passione, l’effettivo e magnetico fil rouge di tutte le opere che ha concepito, chiave di lettura di questa mostra e della sua produzione artistica.
Il percorso espositivo si compone di numerosi suoi dipinti dedicati al corpo umano, soprattutto quello femminile. Il contrasto tra la cruda violenza e l’esplicita sensualità dei soggetti dipinti è espresso chiaramente anche dall’uso dell’acquarello, una tecnica solitamente delicata, infantile, in questo caso totalmente stravolta. Estremamente provocatori, in passato spesso censurati perché considerati osceni, i suoi dipinti mettono in evidenza per forma e colori bocche, lingue, organi sessuali maschili e femminili sovradimensionati che, a prescindere dalle connotazioni – mutilati, esposti, ritratti nelle loro funzioni corporali – colpiscono per la loro vitalità. La Passione, appunto. La stessa percepita nella serie Diagrams, dove vengono rappresentati stati mentali e pulsazioni che vibrando danno vita a segni e forme geometriche, la cui evoluzione vedrà le stesse cucite su tela, in associazione alle suture e pratiche mediche, e quindi di nuovo al corpo umano. E ancora, le forme ricercate in frammenti di realtà – sfere di metallo ed occhi di vetro, unghie e denti, materiali organici e non – che mescolate al colore e incollate su tela danno vita ai Bricolages.
Inoltre, la mostra parigina si è arricchita arricchita di un ingresso privilegiato alla casa studio della Rama, grazie ad un’installazione site specific dell’artista Bepi Ghiotti e del sound artist Paolo Curtoni. Gli spettatori sono infatti invitati ad entrare in uno spazio raccolto all’interno del museo in cui è possibile vivere gli spazi privati dell’artista attraverso le fotografie di Ghiotti, ascoltando la voce della Rama e i suoni registrati nel suo studio, ed osservando gli strumenti di lavoro, i ricordi e gli oggetti feticcio di Carol.
Un contatto ancor più diretto ed intimo con un’artista audace e sperimentale, le cui tematiche controverse stimolano riflessioni molto attuali, certamente molto intense.
Cut to Swipe è il titolo della mostra collettiva inaugurata l’11 ottobre 2014 e aperta al pubblico fino al 22 marzo presso il MoMA di New York. L’esposizione, curata da Stuart Comer, Erica Papernik e Leora Morinis, presenta alcune delle più recenti acquisizioni del Dipartimento Media and Performance Art del celebre museo d’arte contemporanea americano, accostando lavori che risalgono agli anni ’80 con installazioni realizzate in tempi molto recenti. Il risultato è una riflessione obbligata sulla forma e sulla sostanza dell’imponente salto generazionale legato al passaggio dall’analogico al digitale in tutte le sue produzioni, siano esse televisive, fotografiche, cinematografiche, legate al web o all’industria.
Il percorso espositivo propone installazioni ed opere che idealmente appartengono alla stessa epoca ma in realtà sono agli antipodi in termini di materiali, supporti, media e tecnologie utilizzate, tanto da apparire estranee le une alle altre. La velocità con cui nell’ultimo ventennio hanno proliferato i mezzi di comunicazione – anche in ambito artistico – si fa in questa sede terreno di indagine e di confronti stimolanti.
Due opere in particolare – l’elaborazione di immagini prodotta da Dara Birnbaum nel 1982, dal titoloPM Magazine, e la produzione del 2013 di Hito Steyerl, How Not to be Seen a Fucking Didactic Educational.MOV File – si identificano come i poli opposti, gli elementi chiave della mostra. In entrambi i casi gli artisti hanno cercato una connessione con il pubblico basata sul flusso di immagini e suoni, ma i risultati sono incredibilmente differenti. È sconcertante constatare come in una manciata di anni la velocità di potenziamento dei software di editing abbia portato ad avere una diversificazione dilagante di supporti e formati, ed interfaccia quali le tecnologie touchscreen.
La riflessione prosegue oltre gli sviluppi della moderna tecnologia per approdare all’utilizzo che siamo soliti farne. A questo proposito il video di James Richards, dal titolo Rosebud, focalizza l’attenzione di ognuno di noi sull’enorme flusso di informazioni oggigiorno reperibili, proponendo una sequenza tale per cui a poco a poco si fa largo una domanda cruciale: siamo capaci di decifrarne il significato?
D’altro canto, il progetto dal titoloInner Time of Television, ad opera degli Otolith Group in collaborazione con Chris Marker, propone l’utilizzo di tredici televisori a scopo didattico, programmando ognuno di questi perché offra un approfondimento relativo alla cultura dell’Antica Grecia. L’installazione offre la possibilità di concentrarsi su uno o più aspetti del tema sfruttando le postazioni a disposizione nello spazio espositivo.
In conclusione, la mostra si pone come un percorso sfaccettato, ricco di spunti legati anche al titolo scelto per l’esposizione: se per «Cut [taglio]» – s’intende collage e fotomontaggio, due fondamenta dell’espressione artistica del XX secolo, «Swipe [colpo]» – sembra alludere all’impatto della comunicazione nel XXI secolo, dove le immagini tendono a sfuggire al nostro controllo, anche fisico, suggerendo possibilità che vanno oltre i supporti ad oggi conosciuti, ed un’influenza nel nostro reale che è tutta da immaginare.